Priorità per essere competitivi

Dalla Rassegna stampa

Il partito del rigore contro quello della spesa: è davvero questo il senso della commedia (o dello psicodramma) che si recita in questi giorni sullo sfondo di Palazzo Chigi? Se fosse così, ci troveremmo davanti alla riedizione di un contrasto che tante volte ha agitato i governi dell'Italia repubblicana: si potrebbe risalire ai tempi, ormai lontani, in cui toccava a Ugo La Malfa richiamare i suoi colleghi dell’esecutivo al rispetto dei vincoli e delle compatibilità economiche e finanziarie.
Ma si potrebbero ricordare anche le battaglie intraprese (e perse) da Nino Andreatta, quand’era ministro del Tesoro nei primi Anni Ottanta, perché non si sfondassero i «tetti» del debito pubblico.
Quei tentativi di contenimento non ebbero successo e da allora ci portiamo appresso un gravame di oneri finanziari che ancora ci sovrasta e che erode, oltre ai margini di bilancio, la stessa autonomia della nostra politica economica.
Tuttavia, ciò che smuove oggi le acque del governo, rendendo turbolenta la sua navigazione, non è tanto il conflitto periodico che si crea tra chi vorrebbe allargare i cordoni della spesa e chi al contrario li vorrebbe stringere, anche se è così che preferisce descrivere la situazione Umberto Bossi: «Tremonti è una garanzia perché frena gli spendaccioni». Il leader della Lega Nord, disposto a una difesa a oltranza del ministro dell’Economia, vorrebbe che gli si desse un ruolo di preminenza nel governo, elevandolo a quel rango di vicepremier che gli permetterebbe di rintuzzare da una posizione di forza le richieste e le pressioni degli altri ministri. Il sostegno incondizionato che la Lega accorda a un Tremonti non disposto a negoziare alcunché con gli altri suoi colleghi di governo potrebbe persino apparire una stravaganza per un partito che fin qui si è fatto forte del suo legame col mondo delle piccole e piccolissime imprese, dell’artigianato, delle partite Iva. Le parti si sono dunque rovesciate?
In realtà, le cose non stanno precisamente come le rappresenta Bossi. È vero che Tremonti si muove su una rotta di collisione con quei ministri (da Scajola alla Gelmini) che chiedono più risorse per i loro dicasteri. Ma è probabile che la tensione più evidente, agli occhi dell’opinione pubblica, non sia con loro, quanto con la condizione enfatizzata ieri da Emma Marcegaglia che, parlando agli imprenditori di Biella, ha sottolineato i dati più impressionanti di una crisi economica da cui il nostro Paese è tutt’altro che uscito. La presidente di Confindustria ha citato una caduta del Pil del 5,8%, del 25% dell’export, degli investimenti del 13%, con una contrazione della produzione che andrebbe, a seconda delle imprese e dei settori, dal 27 fino al 40 e al 50%. È a questa platea di imprenditori che il ministro dell’Economia deve dare risposta prima che ai membri del governo. A Biella, come in tanti altri centri industriali del Nord, si sono succedute in queste settimane le assemblee di imprenditori che paventano gli effetti distruttivi della crisi sulle loro imprese. E, per giunta, sentono delle intenzioni di Germania e Francia di innalzare la competitività internazionale dei loro prodotti attraverso la riduzione del carico fiscale sulle imprese.
Ora, Tremonti ha certamente ragione quando rammenta come sia esiguo il crinale che l’Italia deve percorrere, destreggiandosi fra i marosi della crisi, da un lato, e fra i moniti della Unione Europea dall’altro. Il ministro dell’Economia sa fin troppo bene che il nostro Paese l’anno prossimo dovrà rinnovare i titoli di Stato che giungono alla scadenza per un valore di circa 100 miliardi di euro. Ed è perfettamente consapevole del fatto che i livelli del fabbisogno italiano rischiano di farci pagare dei rendimenti più elevati rispetto ai Bund tedeschi. Per giunta, Tremonti ha frequentato in queste settimane le associazioni imprenditoriali e ha percepito, in particolare, le frustrazioni e le richieste dei «piccoli», che sentono il morso della crisi.
Proprio per questo non ci si può arrestare alle dichiarazioni di principio. Affermare, come si è fatto al termine della riunione dei coordinatori del Pdl, che occorre conciliare rigore e sviluppo è un mero esercizio retorico. Il governo non può certo trascurare il condizionamento dei vincoli finanziari che pesano ormai da decenni sull’Italia. Ma d’altra parte ha il dovere di indicare una prospettiva credibile per la ripresa della nostra economia, che parta da un’analisi e da una conoscenza puntuali dei caratteri del nostro sistema economico e imprenditoriale. Ciò significa rinunciare definitivamente a promettere tutto a tutti, gli sgravi fiscali e l’attuazione integrale delle grandi opere, dal Ponte sullo Stretto di Messina in poi, annunciando nel contempo che le prestazioni previdenziali non saranno toccate. Significa invece adottare finalmente una severa gerarchia di priorità, che liberi le risorse per quei settori e per quelle attività senza le quali l’Italia non potrà mantenere le posizioni che ha acquisito nell’economia internazionale.

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