Primarie vere giochi aperti

Dalla Rassegna stampa

  Bloccando chi voleva imporre regole per le primarie così penalizzanti per Matteo Renzi da trasformare il sindaco di Firenze in un martire, facendogli in questo modo un grande, involontario favore politico, Pier Luigi Bersani, come tanti osservatori hanno rilevato, ha mostrato intelligenza e fiuto. E si è anche impegnato in una partita - le primarie - che se risultasse per lui un trionfo, lo emanciperebbe dal vecchio gruppo dirigente, gli darebbe una preminenza personale indiscutibile dentro il partito. Adesso è libero di concentrarsi sulla sfida con un avversario pericoloso come Renzi. Un avversario che difficilmente potrà vincere ma che potrebbe comunque imporre una forte ipoteca sul partito, condizionarne futuri equilibri e azioni.

Gli osservatori pro Bersani dicono che Renzi sia solo un abile propagandista di se stesso e che il suo «programma» non vada al di là della proposta della rottamazione: una sfida generazionale senza contenuti. Ciò è vero ma non del tutto. Ci sono comunque accenni di programma nella campagna di Renzi ed hanno diversi punti di contatto con quel discorso del Lingotto con cui Walter Veltroni, nel 2007, avviò la navigazione del Partito democratico. Chi ricorda quel (notevole) discorso sa che Veltroni vi delineava il progetto di un forte rinnovamento, di una significativa discontinuità, rispetto alla tradizione della sinistra italiana. Poi, come spesso succede nelle cose di questo mondo, quella visione innovativa si scontrò con la dura realtà quotidiana della politica, e si perse per strada. Bersani è l'opposto del Veltroni del Lingotto: uno che non predica discontinuità ma che propone piuttosto l'adattamento della tradizione alle circostanze presenti.

Date certe affinità, che esistono, c'è da chiedersi come mai Veltroni non abbia appoggiato Renzi. A maggior ragione, se si tiene conto della distanza che lo separa da Bersani, per tacere di D'Alema. Se lo avesse fatto, probabilmente, le chance di vittoria di Renzi nelle prossime primarie sarebbero cresciute. Si può azzardare una ipotesi: Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece il socialista Giacomo Mancini all'epoca del Midas (1976), quando l'emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi, eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker , colui che favorì la vittoria dell'emergente. Ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi.

Se Renzi perde «bene», se Bersani vince ma solo di misura, allora la navigazione per il suo partito, dato per favorito alle prossime elezioni, diventerà ancor più perigliosa di quanto già non sia. Perché un Renzi forte non può non accentuare le difficoltà di quel partito nel predisporre una plausibile agenda di governo. L'eredità del governo Monti diventerà un peso del quale, per il Pd, non sarà facile sbarazzarsi. Un Renzi forte creerà problemi al segretario, e potenziale premier, Bersani su tutti i fronti. All'interno del partito, per la distanza che c'è fra Renzi e l'entourage del segretario. Nei rapporti con l'alleato Vendola, perché questi vuole azzerare scelte del governo Monti che Renzi difende strenuamente. E nei rapporti con la Cgil, per la stessa ragione.

Queste sono le prime «vere», competitive, primarie nazionali del Partito democratico (in precedenza, ci si era limitati a fare plebiscitare un leader già deciso dal gruppo dirigente). Proprio perché sono vere lasceranno un forte segno.

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