Il presidente tra Sandy e l’Ohio

Due anni di asperrima campagna elettorale. Due miliardi di dollari, il suo costo. Un record. Ancora più eclatante se si considerano questi tempi di crisi economica senza precedenti. E in pochi giorni, gli ultimi prima del voto, un uragano mette in crisi le più raffinate strategie elettorali congegnate per la settimana finale a ridosso dell’Election Day, quella cruciale. Può saltare tutto, adesso.
Per di più in un quadro nel quale i sondaggi continuano a fotografare una condizione di sostanziale pareggio tra Obama e Romney, sia nel voto popolare sia nel computo stato per stato degli electoral vote, che, poi, è il conteggio determinante. L’Hurricane Sandy, con la sua forza distruttrice, che, dopo i giorni della paura, lascerà dietro si sé una lunga coda di devastazioni e di immensi danni economici, tiene in scacco una cinquantina di milioni di americani, in un otto stati importanti del Nordest e della costa atlantica, alcuni dei quali considerati decisivi il 6 novembre.
Quanti saranno costretti a restare a casa, di quelli che pure sarebbero intenzionati a votare? E quanti elettori, anche negli stati risparmiati da Sandy, rivedranno la loro decisione – se votare e per chi votare – sulla base di come il commander-in-chief gestirà l’emergenza? Obama si gioca veramente tutto in queste ore. È avvantaggiato dall’essere il presidente in carica in queste ore, perché l’attenzione è tutta per lui. Ma un minimo errore, proprio per questo può essergli fatale. È la temuta October Surprise, anche se questa volta non è un commando di terroristi a condizionare le presidenziali, ma un immane evento della natura, con tutta l’imprevedibilità del caso. E Romney? Non può far altro che star fermo – ha fatto chiudere i suoi uffici elettorali in North Carolina, New Hampshire, Pennsylvania, e Virginia trasformandoli in centri per gli aiuti e ha sospeso la raccolta fondi in quegli stati – limitandosi a commentare gli eventuali passi falsi dell’avversario, pur dovendo far attenzione a evitare la parte di chi gioisce delle disgrazie. «L’avvicinarsi dell’uragano Sandy – osservava ieri il New York Times – ha ricordato loro quanto la democrazia possa essere fuori del loro controllo».
Al tempo stesso, tuttavia, le strategie pianificate dai due contendenti prima dell’arrivo di Sandy restano sostanzialmente in campo, sebbene molte delle apparizioni del presidente e del suo sfidante siano state cancellate, o coperte dai cosiddetti “surrogate”, nel caso di Obama, il vice-presidente Joe Biden e, soprattutto, Bill Clinton. E nonostante tutto, resta centrale, in entrambi gli schieramenti, l’attenzione verso uno stato in particolare, l’Ohio. I sondaggi nazionali – secondo la media di RealClearPolitics – Obama è in vantaggio di almeno quattro punti in stati che contano per 237 dei 270 voti elettorali necessari per diventare presidente. Romney ne ha 201 con lo stesso vantaggio. Negli otto stati, con un totale di 95 voti elettorali, che andarono a Obama nel 2008 – Colorado, 9 voti, Florida, 29, Iowa, 6, Nevada, 6, New Hamsphire, 4, Ohio, 18, Virginia, 13 e Wisconsin, 10 – si svolge in queste ore la battaglia più agguerrita. In cinque di questi stati – Iowa, Nevada, New Hampshire, Wisconsin e, appunto Ohio – Obama è, di poco, in testa. Dovesse perdere solo in Ohio, avrebbe lo stesso la presidenza in tasca. Mentre Romney avrebbe maggiori difficoltà, senza l’Ohio. Il Nevada si starebbe spostando decisamente verso Obama. In Florida Romney è ora in leggero vantaggio. In Virginia sono appaiati. Se Romney vince in questi due stati, deve comunque battere Obama anche in Iowa, Wisconsin e New Hampshire per conquistare la Casa Bianca. L’Ohio, rispetto all’esito del voto, ha peraltro un’interessante peculiarità. È uno stato più articolato di altri – geograficamente, economicamente, demograficamente – tanto da essere considerato come un’America in miniatura. Infatti, gli Ohians preferiscono parlare del loro stato al plurale: i cinque Ohio.
Il Nordest è un bastione democratico, con città come Cleveland, Akron e Youngstown, con forti minoranze. L’Ohio sudorientale è, con l’estremità montagnosa degli Appalachi, è rutale e bianca, punteggiata da cartelli contro la “guerra al carbone” di Obama. I due quadranti occidentali rispecchiano la composizione demografica del Midwest, con centri urbani come Dayton e Toledo e comunità rurali arciconservatrici e una grande città come Cincinnati, repubblicana. Poi Columbus, la capitale e nell’Ohio centrale, città terziaria e burocratica, sede della più grande università americana. Non c’è dunque solo la classica frattura tra la popolazione rurale, più conservatrice, e quella urbana e industriale, più progressista. Chi sarà stato in grado di architettare la strategia multiforme più adatta all’articolazione dell’Ohio, agguanterà i preziosi diciotto voti elettorali in palio.
Ma l’Ohio – Toledo e Youngstown – è soprattutto sede di importanti stabilimenti automobilistici, con la Chrysler che qui produce la Jeep. Eppure, anche qui, dove Sandy non morde, si avverte la delicatezza di quanto accade nelle zone colpite dall’uragano. E anche in questo stato, alla fine, conterà la sensazione a caldo di come la Casa Bianca avrà fronteggiato questa emergenza più del ricordo stesso di quel che fece di fronte all’altra emergenza di tre anni fa, quando salvò l’auto industry mentre il suo avversario diceva senza tanti giri di parole: «Che Detroit vada in bancarotta».
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