Il presidente sconosciuto

Dal trattato di Lisbona, ora che con la ratifica della Repubblica Ceca è caduto l'ultimo ostacolo formale che ne impediva la messa in opera, nessuno si aspetta miracoli. Ma ci si aspetta che arresti la crisi delle istituzioni europee iniziata con la mancata ratifica del trattato costituzionale a seguito dei referendum francese e olandese del 2005 e il contraccolpo che ne è seguito: la marcata «rinazionalizzazione » della politica europea, il passaggio a una fase in cui i governi europei, con le loro specifiche esigenze, hanno occupato tutta la scena. Dalle disposizioni del trattato ci si attende più forza per le istituzioni dell’Unione e più efficienza per i suoi processi decisionali. Ci si aspetta, più in generale, condizioni favorevoli al riavvio del processo di integrazione.
Ma l'Unione, anche con il nuovo trattato, resta un sistema complesso nel quale elementi di sovranazionalità e potere degli Stati sono obbligati a convivere. E la loro convivenza comporta inevitabilmente difficoltà e incongruenze. Come mostrano le stesse dinamiche connesse alla «partita» delle nomine previste dal trattato di Lisbona: la nomina del presidente del Consiglio europeo e quella dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica della sicurezza. In entrambi i casi, anche se in modo diverso, si pone il problema della ricerca di un difficile equilibrio fra esigenze nazionali (dei singoli Stati) ed esigenze europee (dell'Unione nel suo complesso). La principale esigenza europea è che le cariche di presidente e di responsabile della politica estera si consolidino e acquistino col tempo crescente prestigio: in una parola, che si «istituzionalizzino ». L'inizio è decisivo. Una falsa partenza (per esempio, dovuta alla scelta di candidati di basso profilo) potrebbe compromettere l'operazione, togliere forza alle cariche previste dal trattato. Il problema è se, e fino a che punto, l'esigenza europea si concilia con le esigenze nazionali, i calcoli e le aspettative dei governi più coinvolti in questa partita. Prendiamo il caso della presidenza del Consiglio europeo. C'è (o c'era) sul tavolo un'unica candidatura di grande prestigio, quella di Tony Blair. Ma è traballante o forse già tramontata e va rafforzandosi l’ipotesi di una guida affidata all’attuale primo ministro belga Herman van Rompuy. Blair ha, o aveva, profilo e statura giusti per dare forza e slancio alla Presidenza del Consiglio. Ma poi ci sono le esigenze nazionali, non necessariamente congruenti con l'interesse europeo. A parte la convenienza dei conservatori britannici, probabili vincitori delle prossime elezioni, a non avere un avversario politico interno come Blair alla testa dell' Unione, c'è la più generale circostanza che i governi dei grandi Stati possono preferire per quella carica uomini di più bassa statura politica: qualche rispettabile figura sconosciuta ai più, troppo debole per dare lustro alla carica ma malleabile e disposta a seguire docilmente le istruzioni dei governi che più contano in Europa.
Anche nel caso della nomina del responsabile della politica estera il problema della composizione fra interessi nazionali e interesse europeo si pone. Ma in modo diverso rispetto al caso precedente: qui sono in campo solo nomi di prestigio. Noi italiani siamo direttamente coinvolti in questa partita in virtù della scelta del governo Berlusconi di appoggiare la candidatura di Massimo D’Alema. Una candidatura forte anche in Europa, per la statura del personaggio (già primo ministro e poi ministro degli Esteri nell’ultimo governo Prodi). Alla candidatura di D’Alema si contrappone, fino a ora, solo quella dell’attuale ministro degli Esteri britannico David Miliband. È evidente dove stia, nel caso della candidatura di D’Alema, l’interesse nazionale italiano così come le nostre principali forze lo interpretano: non solo si ottiene per un prestigioso politico italiano una carica così importante ma, in più, la sponsorizzazione del governo, se l’operazione andasse in porto, avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra maggioranza e opposizione.
C’è poi, anche in questo caso, l’interesse europeo. Esso può essere soddisfatto dall’alto profilo dei candidati. Ma dal punto di vista europeo, c’è un ulteriore problema: come la politica estera dell’Unione verrebbe influenzata dalla scelta dell’uno o dell’altro? L’Alto rappresentante ha infatti, almeno sulla carta, considerevoli poteri. Può incidere davvero (anche se, naturalmente, sempre coordinandosi con i governi che contano) sulle scelte dell’Unione. E i dossier su cui dovrà lavorare sono davvero delicati: rapporti con gli Stati Uniti, rapporti con la Russia, e tutte le esplosive questioni mediorientali. Sia D’Alema che Miliband sono politici di razza, non banderuole, e conosciamo i loro convincimenti. È presumibile che la politica estera della Ue risulterebbe parzialmente diversa a seconda che l’uno o l’altro divenisse «ministro degli Esteri» europeo.
Sono note, ad esempio, certe riserve che la candidatura di D’Alema suscita in Italia e fuori d’Italia, non certo per la persona (il cui valore è considerato fuori discussione) ma per un aspetto, soprattutto, della sua passata esperienza di ministro degli Esteri: la sua politica di allora per il Medio Oriente, il suo filo arabismo, e la sua posizione meno comprensiva per le ragioni di Israele che per quelle dei suoi nemici. D’altra parte anche per Miliband non mancano le riserve, se non altro data la tradizionale posizione della Gran Bretagna, critica di molti aspetti della costruzione europea. Sarebbe utile se i diversi candidati per le cariche in gioco fossero chiamati a esporre preventivamente di fronte all’opinione pubblica europea le loro intenzioni sulle più delicate questioni che ha di fronte a sé la Ue. Ciò aiuterebbe forse a trovare il giusto equilibrio fra i legittimi interessi nazionali e l’altrettanto legittima esigenza degli europei di conoscere quale politica i prescelti contribuirebbero a costruire.
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