Poveri laicisti

Dalla Rassegna stampa

Quest’anno, imprevedibilmente, la ricorrenza del Natale potrà offrire a sociologi, politologi, teologi, una buona opportunità per studiare una società liberata dai consumi e dalle distorsioni etico sociali che ne conseguono. Dopo anni e decenni di sfrenato e cinico consumismo, il nostro paese - ma forse l’Europa intera, salvo la Germania - sperimenterà una stagione di scarsi consumi, con punte di vero e proprio pauperismo. Naturalmente, gli esperti si divideranno: da una parte i piagnoni, che lamenteranno la crisi economica e il regresso sociale, dall’altra quelli che esulteranno perché finalmente l’odiosa icona della modernità, il consumo, si è dissolta, magari per sempre: costoro ci restituiranno immagini bucoliche di una società finalmente ravveduta, che celebra santamente l’arrivo nella mangiatoia, scaldata dal fiato del bue e dell’asinello, del Bambinello divino, mentre Maria riposa dopo il travaglio (il cesareo era stato appena inventato, e così poté nascere il grande Giulio Cesare), san Giuseppe veglia saggiamente sulla scenetta, i pastori arrivano con in mano cestelle di caglio fragrante e di dolce ricotta, datteri e fichi secchi, e gli angeli, appesi fuori della grotta con fili d’oro o d’argento, aprono cartigli di augurio e celestiale gioia. Sì, con la fine del consumismo torna in auge il francescano presepe, scalzando l’antiecologico albero di Natale e i suoi barbarici sentori.
 
 Scusatemi. Il mio è ovviamente un sogno, un auspicio non destinato ad avverarsi. Perché, per la verità, non ho ancora sentito una sola voce levarsi in difesa del mondo che incombe, scarsamente illuminato, freddo e pauperista, con le saracinesche dei negozi abbassate, gli stigli vuoti, gli addobbi ridotti all’osso, maxisconti su tutto. No, i nemici del consumismo tacciono, non osano alzare la voce, tanto meno esultare. Non ne hanno il coraggio, temono di beccarsi, dovessero far capoccella fuori della porta, qualche palla di neve se non qualche sassata. E anche loro, alla fine, cercheranno di portare di nascosto in tavola, per il cenone, una spigola al forno o un costoso cosciotto di abbacchio.
 
 Mia moglie, se ci fosse, andrebbe comunque in giro per mezza Roma a cercare, tra panettone, torroni e tortellini, il "Christmas pudding" con il quale Natale viene festeggiato, secondo tradizione, nel suo paese (non è davvero un prodotto consumistico, sembra un panpepato, tutto fichi secchi, mandorle e miele, però morbido). I miei figli lo deridevano, il molliccio "blob", ma ora che lei non c’è più ne rimpiangeranno l’assenza dalla tavola. Io farò a meno del "Christmas pudding", però tutti, chi un verso chi per l’altro, tireranno un po’ la cinghia.
 
 I più avanti negli anni, come me, potranno consolarsi al ricordo degli anni del boom, quando le feste di fine d’anno erano l’occasione più portentosa per l’esibizionismo dei consumi, delle spese. Allora non lo chiamavano "shopping", ma era uno spettacolo imperdibile la gente che faceva a spintoni per entrare nel negozio più alla moda, nella drogheria più fornita, nella pasticceria più squisita. Fu allora che io vidi il mio primo cervo, il mio primo cinghiale. Quelle bestie non erano vive, pendevano inerti, con il sangue sgocciolante dalle narici, da un gancio della elegante macelleria al centro di Roma. Le carcasse finirono, spolpate, appena dopo Capodanno.
 
 E all’alba della mezzanotte del 23, tutti al gran spettacolo del "cottìo", ai Mercati generali: tra gli enormi capannoni, in un freddo polare, la gente si affollava a comprare non l’anguilla di Comacchio, la sogliola dell’Adriatico o il tonno siciliano; no, andavano a ruba lo storione del Volga e l’aragosta del Maine. Altri tempi.
 
 Basta messe di mezzanotte
I laicisti esultavano, sostenevano che finalmente il Natale tornava a essere, come alle origini, una festa laico pagana, la festa dei Saturnali e del Sol Invictus di cui l’abete, così pieno di evocazioni pagane, era il simbolo perfetto. Nasceva finalmente, a loro avviso, una società sottratta alla messa di mezzanotte. Per la verità, quand’ero ragazzino, quella messa era davvero un tormento. Ci toccava uscire di casa tutti imbacuccati, con le mani e i piedi piagati dai geloni, né ci scaldavano il profumo inebriante dell’incenso o lo sfolgorio delle candele sull’altare. Con il boom, quell’abitudine finì (eppoi, noi eravamo diventati grandi e scettici), la gente cominciò a uscire (in macchina) per i grandi veglioni, in ristoranti e alberghi sontuosamente addobbati.
 
 Poveri laicisti, miseramente sconfitti dalla fine dei consumi di massa. Non so nulla del surriscaldamento del globo, preconizzato da climatologi, meteorologi e uccellacci del malaugurio. A me pare di sentire, in questi giorni, un freddo più intenso del solito, Ma forse è solo un freddo interiore, provocato dalla tristezza e dal disorientamento per la fine di troppe illusioni, le illusioni connesse alla fine del consumismo e alla sua volatile frenesia: e così il 24 notte, di nuovo, redenti e nuovamente credenti, tutti intorno alla greppia (perché ridete, cosa avete capito? Io intendevo la greppia della grotta di Betlemme...).

© 2010 Il Foglio. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK