Popolare e borghese

Dalla Rassegna stampa

Forse non bisognerebbe perseverare, a campagna elettorale conclusa, nell’errore commesso prima e durante la campagna, quello di sopravalutare l’influenza dei suoi risultati sulla stabilità del governo nazionale. Il governo in quanto tale è sicuramente uscito vincitore da un’elezione regionale che gli illusi credevano di trasformare in un referendum contro Berlusconi («Faremo come in Francia»). Ma sarebbe sopravvissuto anche a una sconfitta. E i gravi problemi che ha sul tavolo e aspettano di essere affrontati sarebbero stati lì comunque.
Saranno le scelte o le non scelte su quei problemi che in definitiva rafforzeranno o indeboliranno il governo. Né ha molto senso trarre chissà quali indicazioni dal forte astensionismo registrato. E’ possibile, se non probabile, che alle prossime elezioni politiche (nel 2013) la tendenza astensionista non si confermi. La drammatizzazione, la trasformazione delle elezioni in «giudizi di Dio», funziona molto meglio nelle elezioni politiche che in quelle regionali. E lì, in genere, ha un effetto inibitore sull’astensionismo. Fine della storia.
In seguito, fra qualche mese, quando di queste elezioni non importerà più nulla a nessuno, verranno pubblicate ottime analisi disaggregate dei dati e serie ricerche sui flussi elettorali, e sarà possibile capire nel dettaglio (ma la cosa, a quel punto, interesserà solo agli studiosi) che cosa è davvero successo nella
pancia del Paese. Al momento, sono solo possibili valutazioni generiche e di massima. Intanto, notiamo un paradosso: Berlusconi premier ha molti più motivi di sorridere del Berlusconi leader del Pdl. Non solo la maggioranza di governo non è stata duramente punita, come dì solito avviene, ma ha addirittura vinto le elezioni. Il Pdl, invece, è in seria difficoltà a causa della avanzata della Lega in tutto il Nord. Una crescita entro certi limiti prevedibile dal momento che i candidati leghisti alla Presidenza in Veneto e Piemonte non potevano non tirare la volata al loro partito ma anche una crescita che, per le sue dimensioni e proporzioni, pone un’ipoteca sul futuro del Pdl. E’ la capacità competitiva del Pdl nell’area del centro-destra del Nord che dovrà essere soppesata nel prossimo futuro.
Inoltre, i successi registrati dalla Lega nelle tradizionali zone rosse (in certe aree dell’Emilia soprattutto) dovrebbero preoccupare sia il Pdl che il Partito democratico. Sembrano indicare che là dove la tradizione politica locale predilige i partiti popolari con vocazione per il radicamento territoriale, la Lega possiede sia notevoli capacità competitive nei confronti dei partiti d’opposizione che un tempo si sarebbero detti «borghesi» (come il Pdl), a debole radicamento, sia una certa potenzialità di espansione ai danni di forze popolari tradizionalmente dominanti (come, appunto, il Pd nelle zone rosse). Ma su questo solo l’analisi dei flussi elettorali potrà darci indicazioni più precise.
Soprattutto, bisognerà comprendere come è andato trasformandosi, e come ancora si trasformerà per effetto della crescita, il movimento di Bossi. I vecchi cliché, ma anche qualche vecchia buona analisi, non ci aiutano più a capire.
Se dalla destra dello schieramento ci spostiamo verso il centro, ci imbattiamo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini. In fondo, in questa campagna, Casini aveva il progetto più ambizioso: dimostrare di essere il vero ago della bilancia della politica italiana, dimostrare ai due blocchi che si poteva vincere solo alleati con lui. Ha mostrato di essere determinante in Lazio, in Puglia (dove la sua mancata alleanza con il Pdl ha favorito l’affermazione di Nichi Vendola), in Liguria.
Ma ha mancato l’en plein in Piemonte dove sosteneva la Bresso. Più grave ancora, lo spostamento a sinistra del baricentro dell’opposizione che queste elezioni prefigurano riduce il valore del capitale politico a sua disposizione. A sinistra, infatti, un’ulteriore radicalizzazione sembra un esito probabile. L’Italia dei Valori consolida le sue posizioni ed è ormai un interlocutore/ competitore/alleato di peso di cui il Partito democratico non può più fare a meno. C’è poi il fenomeno, per certi versi enigmatico e comunque non previsto dai sondaggi, rappresentato dai successi delle liste di Beppe Grillo. E c’è la consacrazione di Vendola come potenziale leader nazionale. Quella che avrebbe dovuto essere, nel progetto da cui nacque quel partito, il motore, l’anima e la forza egemone del Partito democratico, ossia la componente riformista, esce male anche da queste elezioni. Si conferma il fatto, oggi come in passato, alla luce dell’intera storia della sinistra italiana, che il massimalismo paga più della moderazione, che i riformisti sono destinati a restare minoranza. Come, del resto, i liberali a destra.

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