Ponzio Napolitano

Nonostante tutto, Silvio Berlusconi è convinto di avere in mano buone carte. L'incontro di ieri sera con Giorgio Napolitano non è andato bene. Il premier voleva il via libera per un decreto che consentisse la presentazione di tutte le liste in tutte le regioni. Ammettendo così la partecipazione di Roberto Formigoni all'elezione lombarda e della lista del PdL, che appoggia Renata Polverini, nella provincia di Roma. Non l'ha ottenuto.
Poche ore prima, infatti, la Corte d'appello aveva ammesso il listino dellaPolverini nel Lazio. Questo vuol dire che Emma Bovino avrà una rivale e che si assisterà, più o meno, a un'elezione vera. Il "più o meno" è dovuto proprio al fatto che la lista del PdL è esclusa dalla competizione nella capitale, dove comunque gli elettori di centrodestra avranno altre liste da votare. A
Napolitano, però, è bastato appigliarsi alla decisione del tribunale romano per sostenere che non c'è necessità di un provvedimento urgente come quello voluto da Berlusconi. Al quale non è rimasto che annullare la convocazione del Consiglio dei ministri, che era stato chiamato a riunirsi in seduta straordinaria, alle 22 proprio per varare il provvedimento salva-liste. E i lombardi? Il presidente della Repubblica sa che non si può tenere fuori Formigoni dalla corsa elettorale. Confida, però, nel ricorso presentato dal governatore davanti al Tar. Solo nel caso in cui anche questo dovesse andare male, sarà disponibile a valutare «soluzioni politiche», che dovranno essere comunque discusse con l'opposizione.
Berlusconi non condivide, ma ha già trovato il modo di trasformare questi handicap in punti di forza. I ministri che lo hanno incontrato ieri sera, al ritorno dal Quirinale, lo descrivono «determinatissimo e incavolato». Con in mente il tormentone per arringare gli elettori: «Non vogliono farvi votare, non vogliono farci vincere». Ancora una volta, insomma, Berlusconi punta a trasformare una campagna elettorale nell'ennesimo referendum su se stesso: da una parte lui, dall'altra i magistrati e la sinistra, che se le inventano tutte per impedire alla maggioranza degli elettori di esprimersi, mentre il Quirinale sta a guardare.
Anche se alla fine, in un modo o nell'altro, il nome di Formigoni sarà sulla scheda, quanto accaduto sinora in Lombardia e la probabile mancanza della lista del PdL (quella con il suo nome sopra) nella provincia di Roma, secondo il premier bastano e avanzano a giustificare una simile strategia d'attacco. Inutile aggiungere che questi sono i casi in cui Berlusconi dà il meglio di sé. E infatti proprio il timore che andasse a finire così aveva spinto diversi esponenti del Partito democratico a dirsi disponibili a, trovare una soluzione politica.
La rabbia con cui Berlusconi si prepara a remare controcorrente sarà determinante per il risultato elettorale, ma non guarisce comunque il PdL dai suoi mali e dalle sue divisioni. In comune, berlusconiani e finiani hanno la diagnosi, e cioè il fatto che «questo partito non va bene», ma non la terapia. I primi vogliono tornare alle origini, al vecchio spirito forzista; i secondi sognano la «evoluzione» del PdL verso qualcosa che non è mai stato: un partito "liberal", una destra che loro definiscono «moderna», ma che peri loro avversari interni, semplicemente, non è destra.
L'aria che si respira è da resa dei conti imminente. Ieri alla Camera, in Transatlantico, due "proto-berlusconiani" come Antonio Martino e Claudio Scajola hanno discusso a lungo su come rendere più solidi gli assetti del PdL e tutelare il patrimonio genetico forzista. Un deputato la cui fede nel Cavaliere è fuori discussione si sfoga così: «La verità è che Berlusconi non si occupa più di nulla. La vicenda delle liste laziali dimostra che il partito è in mano alle bande di Alleanza Nazionale. E la colpa è anche nostra, perché siamo noi che consentiamo a quelli di An di fare così». Ad abbandonare il PdL, però, ancora non ci pensa nessuno: «L'unica cosa che possiamo
fare adesso è sostenere Berlusconi. Il quale, però, subito dopo il voto deve chiamare Fini e dirgli di azzerare tutto. Ricominciamo da capo, cancelliamo tutti i vertici».
Frasi che spiegano bene come il partito unico di centrodestra sia ancora lontano dall'essere una realtà. E che, a un anno dalla. nascita ufficiale del PdL, autorizzano a temere che possa non esistere mai. Un buon risultato alle regionali - ammesso che a questo punto possa ancora essere ottenuto - servirà solo a dare un sollievo momentaneo a questi problemi.
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