Politica e credibilità

Dalla Rassegna stampa

Giovanni Giolitti, esattamente un secolo fa, aveva dichiarato che in Italia la legge si applica fermamente per gli avversari mentre per gli amici s’interpreta. Se qualcuno sino a ieri poteva ritenerla una sorta di provocazione del cinico statista, ormai superata dall’avvento della democrazia di massa, oggi deve disilludersi. Siamo ancora lì, come dimostra il decreto “interpretativo” del governo per sciogliere il nodo dell’esclusione delle liste amiche del PdL dalle elezioni regionali emanato pochi giorni dopo avere fieramente difeso la “lettera” della legge di fronte agli avversari del Pd emiliano, negando alla città di Bologna la possibilità di ricorrere alle urne per eleggersi il sindaco, dopo le dimissioni di Delbono. La norma è chiara, aveva detto Cicchitto, a nome del Governo: per poche ore di ritardo nelle dimissioni, il capoluogo emiliano era destinato ad essere commissariato per oltre un anno. Alla richiesta di deroga da parte del Pd, l’ex politico socialista aveva risposto che la legge è legge e non guarda in faccia a nessuno: “Bologna è una città come le altre”.

 Benissimo, si sono detti i meno faziosi, pensando alla fortuna di uomini di governo così ligi di fronte alle norme e alla legalità. Purtroppo, l’illusione è durata lo spazio di un mattino e di fronte al caso delle liste PdL nel Lazio e in Lombardia ci siamo resi conto che la visione giolittiana della natura della politica italiana continua ad essere la più realistica. Al di là della pur sostanziale questione del rispetto della forma e delle norme esistenti, esiste una questione più generale che sta coinvolgendo in modo massiccio l’intera sfera della politica. Il vero, grave, problema è infatti la totale e crescente divaricazione esistente tra il ruolo dei partiti e la loro credibilità. I sondaggi più recenti hanno visto crollare al 12% il numero degli italiani che ha fiducia nella politica. Una delle ragioni di un così basso livello va ricercata nel fatto che non esiste fatto o idea che non vengano sempre e comunque piegati alle esigenze di propaganda e alla costruzione di un’immagine artificiale, cioè di un partito, di un gruppo dirigente che è sempre nel giusto, sulla base della prospettiva del vantaggio immediato.
 La politica oggi in Italia avrebbe bisogno non solo di parole chiare e di programmi concreti ma anche di esempi di coraggio civico, ovvero di prese di posizione che non dipendano dal colore di chi sta di fronte. Un esempio: il decreto interpretativo del governo sarebbe stato fatto anche se a rimanere escluse fossero state le liste del Pd? Provate a sottoporre ogni argomentazione di parte alla prova dell’opposto per capire come in Italia non ci sia alcuna speranza di uscire da una esasperata partigianeria. E se in politica la visione di parte è non solo inevitabile ma anche utile e necessaria, esiste però un ambito, quello dello spazio istituzionale, in cui l’eccesso di difesa del proprio interesse è un male per la credibilità della politica stessa. Se un leader fosse davvero libero, in grado cioè di guardare, in certe particolari circostanze, al di sopra di beghe e convenienze di bottega e di vantaggi personali, potrebbe pensare in termini rivoluzionari. Berlusconi invece è ormai da tutti i punti di vista un conservatore attardato sui suoi problemi e ritiene necessario procedere sempre nello stesso modo invitando cioè i suoi a scaricare comunque ogni responsabilità “sui nostri avversari e sulla magistratura che usa ogni mezzo per colpirmi”. Immaginate invece un Presidente del Consiglio che dichiara: “le liste non sono state presentate seguendo le regole vigenti. Forse anche i nostri avversari non erano in regola. Ma noi avremmo dovuto esserlo. Per colpa degli apparati inefficienti (o di rivalità interne, o di superficialità ecc) non siamo stati in grado di presentare formalmente agli elettori la nostra proposta di candidature in queste regioni.
Ovviamente faremo tesoro degli sbagli e puniremo i colpevoli di questi errori che nulla tolgono al valore della nostra proposta politica”. Forse lo shock, per una pubblica opinione avvezza al tranquillizzante torpore dei ritornelli di parte, sarebbe stato eccessivo. Qualcuno l’avrebbe addirittura ritenuta una dichiarazione impolitica ma in realtà, al contrario, ci saremmo trovati di fronte ad una mossa di grande spessore, permessa solo ai veri statisti e ai leader carismatici, che si disinteressano dei piccoli cocci del giocattolino rotto per guardare ai grandi disegni di stabilizzazione del sistema e dunque, indirettamente, di rafforzamento della propria parte. Ecco, sarebbe bastata quella dichiarazione per sancire la fine dell’incantesimo giolittiano e la nascita simbolica della vera seconda repubblica italiana.

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