Piroetta diplomatica

Complice il viaggio a Washington, dove sono probabilmente passate notizie di prima mano, il governo italiano ha cambiato toni e misure nei confronti del presidente afghano e dei tre uomini di Emergency. Silvio Berlusconi in persona ha scritto ieri a Karzai una ferma lettera in difesa dei diritti degli italiani arrestati nel suo Paese, compiendo una perfetta piroetta diplomatica rispetto ai primi giorni di questo complicato affair internazionale durante i quali il governo aveva fatto trapelare più dubbi sulla credibilità degli italiani arrestati che su quella delle autorità di Kabul.
Il drastico aggiustamento di linea, tuttavia, non va visto come l’apertura di una crepa da parte dell’Italia dentro la coalizione che sostiene (con notevole prezzo di sangue e di denaro) Hamid Karzai. In realtà è quella di oggi, non la precedente posizione, ad allineare correttamente il governo di Berlusconi agli Usa: in questo momento il presidente afghano non è un interlocutore affidabilissimo degli Occidentali.
Karzai non è saldamente in sella, e, per dirla tutta, gli americani se potessero ne farebbero volentieri a meno. Forse il viaggio a Washington ha chiarito (ma queste sono solo supposizioni) l’esatta misura delle relazioni fra gli Stati Uniti e il governo afghano. O forse l’aggiustamento è derivato solo da una pausa di riflessione: ieri il «Foglio», quotidiano sempre molto influente nel nostro governo, ha raccontato con la consueta autorevolezza la recente odissea di irritazioni e tensioni fra Obama e Karzai, definito per altro recentemente da Peter Galbraith, ex inviato Onu in Afghanistan, senza tanti giri di parole «sotto influenza di sostanze narcotiche».
Il dubbio che erode i rapporti fra Washington e Kabul da mesi è molto chiaro: si può vincere la guerra al terrorismo con un alleato del genere? Fra i due protagonisti di questa storia, nell’ultimo anno si è sviluppato infatti un rapporto di forza inversamente proporzionale - l’Afghanistan è diventato il fronte di guerra più importante per Obama proprio mentre il presidente Karzai diventava sempre più incontrollabile e inaffidabile. Che fra le due traiettorie ci sia un intreccio, appare del tutto ovvio. Come ben si sa, Obama ha ereditato la guerra contro i talebani e non ha potuto chiuderla come ha fatto in Iraq. Sottrarvisi - secondo tutti i suoi esperti avrebbe comportato il rischio di impantanarsi in un conflitto di lungo periodo, o in una perdita secca di quel poco di controllo che gli Usa sono riusciti a stabilire nell’area. Una ritirata tanto più impossibile mentre il confronto con l’Iran si fa sempre più duro e la minaccia di Al Qaeda non recede. Obama, presentatosi come uomo della pace, in Afghanistan ha impegnato così migliaia di nuove truppe nonché la sua faccia. Possiamo solo immaginare quel che significhi per lui ritrovarsi come alleato Karzai, che dovrebbe rappresentare agli occhi del suo Paese la democrazia e il futuro, e che invece affonda nella corruzione.
Alle radici delle tensioni ci sono le fraudolenti elezioni che hanno portato lo scorso anno alla riconferma del presidente afghano. Avrebbero forse potuto e dovuto essere annullate, ma nelle condizioni di guerra in corso una decisione del genere avrebbe fatto precipitare ogni strategia americana nel caos. Da allora le relazioni non sono mai più state le stesse. Karzai è accusato ogni giorno da media ed esperti di «comportamenti incomprensibili e bizzarri». Si diceva di Peter Galbraith, che a Karzai ha dato del drogato in maniera semiufficiale, solo tre settimane fa. Ma va ricordata anche l’inchiesta pubblicata di recente dal «New York Times» in cui si rivela che il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali, è pagato dalla Cia ed è un barone del narcotraffico.
Il presidente afghano risponde da tempo a queste pressioni colpo su colpo. Dal giurare che «se le pressioni continueranno mi schiererò con i taleban», fino all’invito rivolto al presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad a visitare l’Afghanistan. La versione degli uomini del governo afghano è molto semplice: gli Usa accusano perché preparano in anticipo la giustificazione alla loro sconfitta militare, e al ritiro già annunciato del 2011. Tuttavia, con un’offensiva in corso, quella di Kandahar, Washington non può e non vuole andare più in là. La Casa Bianca ha infatti già annunciato una visita di Karzai in Usa il prossimo mese, a maggio, in segno di distensione. Ma la freddezza è destinata a durare. E non si dovrebbe escludere che anche il caso italiano sia parte di questo sviluppo negativo dei rapporti fra missione occidentale e afghani. Certo è che la lettera di ieri del premier Berlusconi sembra non solo riscrivere il contesto in cui è stato deciso l’arresto degli uomini di Emergency, ma delineare una presa di distanza oggettiva anche dei nostro Paese dal governo afghano.
Se, come e quando si potrà avvertire questo cambio, dipenderà molto proprio da come si svilupperà la vicenda dei prigionieri italiani.
Il drastico aggiustamento di linea, tuttavia, non va visto come l’apertura di una crepa da parte dell’Italia dentro la coalizione che sostiene (con notevole prezzo di sangue e di denaro) Hamid Karzai. In realtà è quella di oggi, non la precedente posizione, ad allineare correttamente il governo di Berlusconi agli Usa: in questo momento il presidente afghano non è un interlocutore affidabilissimo degli Occidentali.
Karzai non è saldamente in sella, e, per dirla tutta, gli americani se potessero ne farebbero volentieri a meno. Forse il viaggio a Washington ha chiarito (ma queste sono solo supposizioni) l’esatta misura delle relazioni fra gli Stati Uniti e il governo afghano. O forse l’aggiustamento è derivato solo da una pausa di riflessione: ieri il «Foglio», quotidiano sempre molto influente nel nostro governo, ha raccontato con la consueta autorevolezza la recente odissea di irritazioni e tensioni fra Obama e Karzai, definito per altro recentemente da Peter Galbraith, ex inviato Onu in Afghanistan, senza tanti giri di parole «sotto influenza di sostanze narcotiche».
Il dubbio che erode i rapporti fra Washington e Kabul da mesi è molto chiaro: si può vincere la guerra al terrorismo con un alleato del genere? Fra i due protagonisti di questa storia, nell’ultimo anno si è sviluppato infatti un rapporto di forza inversamente proporzionale - l’Afghanistan è diventato il fronte di guerra più importante per Obama proprio mentre il presidente Karzai diventava sempre più incontrollabile e inaffidabile. Che fra le due traiettorie ci sia un intreccio, appare del tutto ovvio. Come ben si sa, Obama ha ereditato la guerra contro i talebani e non ha potuto chiuderla come ha fatto in Iraq. Sottrarvisi - secondo tutti i suoi esperti avrebbe comportato il rischio di impantanarsi in un conflitto di lungo periodo, o in una perdita secca di quel poco di controllo che gli Usa sono riusciti a stabilire nell’area. Una ritirata tanto più impossibile mentre il confronto con l’Iran si fa sempre più duro e la minaccia di Al Qaeda non recede. Obama, presentatosi come uomo della pace, in Afghanistan ha impegnato così migliaia di nuove truppe nonché la sua faccia. Possiamo solo immaginare quel che significhi per lui ritrovarsi come alleato Karzai, che dovrebbe rappresentare agli occhi del suo Paese la democrazia e il futuro, e che invece affonda nella corruzione.
Alle radici delle tensioni ci sono le fraudolenti elezioni che hanno portato lo scorso anno alla riconferma del presidente afghano. Avrebbero forse potuto e dovuto essere annullate, ma nelle condizioni di guerra in corso una decisione del genere avrebbe fatto precipitare ogni strategia americana nel caos. Da allora le relazioni non sono mai più state le stesse. Karzai è accusato ogni giorno da media ed esperti di «comportamenti incomprensibili e bizzarri». Si diceva di Peter Galbraith, che a Karzai ha dato del drogato in maniera semiufficiale, solo tre settimane fa. Ma va ricordata anche l’inchiesta pubblicata di recente dal «New York Times» in cui si rivela che il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali, è pagato dalla Cia ed è un barone del narcotraffico.
Il presidente afghano risponde da tempo a queste pressioni colpo su colpo. Dal giurare che «se le pressioni continueranno mi schiererò con i taleban», fino all’invito rivolto al presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad a visitare l’Afghanistan. La versione degli uomini del governo afghano è molto semplice: gli Usa accusano perché preparano in anticipo la giustificazione alla loro sconfitta militare, e al ritiro già annunciato del 2011. Tuttavia, con un’offensiva in corso, quella di Kandahar, Washington non può e non vuole andare più in là. La Casa Bianca ha infatti già annunciato una visita di Karzai in Usa il prossimo mese, a maggio, in segno di distensione. Ma la freddezza è destinata a durare. E non si dovrebbe escludere che anche il caso italiano sia parte di questo sviluppo negativo dei rapporti fra missione occidentale e afghani. Certo è che la lettera di ieri del premier Berlusconi sembra non solo riscrivere il contesto in cui è stato deciso l’arresto degli uomini di Emergency, ma delineare una presa di distanza oggettiva anche dei nostro Paese dal governo afghano.
Se, come e quando si potrà avvertire questo cambio, dipenderà molto proprio da come si svilupperà la vicenda dei prigionieri italiani.
© 2010 La Stampa. Tutti i diritti riservati
SEGUICI
SU
FACEBOOK
SU
- Login to post comments