Pietre, feriti e arresti. A Gerusalemme il "giorno della rabbia"

A un certo punto, sbucano anche le pistole. È una borsa di ferri lucidi e ben oliati, un po' di munizioni. Tutta roba pronta per l'uso: «Tiénila qui!», grida a un bottegaio un ragazzetto sudato e col fiatone, dietro la Via Dolorosa. Un lampo: di mano in mano, la borsa sparisce in un bancone, sul bancone si chiude una saracinesca, sulla saracinesca si chiudono gli occhi di chi vede ed è meglio si giri.
Tiénila qui, habibi. Servirà. Perché oggi è il «Giorno della rabbia», come ha proclamato Hamas, ma qui si preparano settimane d'ira. E dopo tante parole come pietre, ecco le pietre che non ammettono parole. Sassaiole che suonano come tamburi d'intifada. Un martedì che sembra il provino d'una rivolta. Da Shuafat a Issaniyeh, da Wadi Joz ad Abu Tur, per una decina d'ore la Città Vecchia e un po' di Gerusalemme Est sono la cartolina di dieci anni fa. Gli slogan: «Milioni di martiri in marcia sulla città santa!». Lo sventolio di un gigantesco quadricolore: «Noi moriremo, la Palestina vivrà!». E infine gli scontri con la polizia: 4o feriti, 15 agenti all'ospedale, una sessantina di arrestati.
Cassonetti di rabbia, lacrime da fumogeno. Annunciati da una settimana, i disordini sono stati preparati con cura. Decine di professionisti della guerriglia urbana di qua, tremila poliziotti di là. Il pretesto: l'ingresso dei rotoli della Torah nella sinagoga Hurva, restaurata per la terza volta, a 40o metri dal Muro del Pianto. Bruciato dagli arabi nel '70o e distrutto dai giordani nel 1948, Hurya (significato: «rudere») fu sempre il tempio ebraico più caro agli askenaziti, ma per i musulmani è d'una vicinanza intollerabile alla moschea Al Aqsa. Di qui gli appelli della Conferenza islamica - «la costruzione (il corsivo è nostro, ndr) apre ai rischi d'una guerra di religione» - e le truci promesse di Hamas.
La sinagoga c'entra a metà, però. E il martedì di violenze, che peraltro non ha infastidito troppo pellegrini, turisti e mercanti, per dirla con l'Anp (Abdel Qader) è in realtà «la reazione della strada alla politica di Netanyahu». Ovvero alla querelle aperta, soprattutto fra le diplomazie, sulle nuove case che il governo vuole costruire a Gerusalemme Est. «Non c'è crisi con Israele», dice adesso Hillary Clinton, segretario di Stato americano, dopo una settimana di veleni, note furiose e sfoghi telefonici: «Il nostro legame è forte e indistruttibile. E totale il nostro impegno per la sicurezza d'Israele». Si lavora a ricucire e George Mitchell, l'inviato di Obama atteso per oggi, è stato tenuto a Washington perché Washington vuole da Netanyahu tre impegni: che si rimangi l'annuncio di quelle case, che faccia un gesto «sostanziale» verso i palestinesi, che dichiari di voler negoziare anche su Gerusalemme. «Richieste irragionevoli», dice il ministro
degli Esteri di Bibi, Avigdor Lieberman: «I nostri rapporti con gli Usa, però, torneranno presto al sereno».
Qualcuno fa due conti: ogni anno, Gerusalemme riceve da Washington quasi tre miliardi di dollari in aiuti militari e civili, esporta in America beni per 17 miliardi. «La dipendenza è strategica, politica ed economica - spiega Alex Fishman, analista israeliano -. E in più c'è l'opzione Iran: noi sappiamo come andare in guerra da soli, ma non sappiamo come finire le guerre senza gli Usa. Un accordo è inevitabile». La settimana prossima, Netanyahu vuole già volare negli States: per far pace con l'offeso vice di Obama, Biden, e avere l'appoggio della lobby pro israeliana dell'Aipac. Tutti gli attori (Obama, Bibi, Abu Mazen) sono troppo deboli per sopportare una nuova intifada.
Le immagini di Gerusalemme presa a sassate fanno il gioco di Hamas. E forse è anche per questo che dagli Usa, dopo settimane, arriva una bacchettata anche ai palestinesi: «Attenti
a non incitare - dice il Dipartimento di Stato -: si scherza col fuoco».
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