Piccole imprese quello che serve

Dalla Rassegna stampa

L’opinione pub­blica italiana sta scoprendo, fi­nalmente, il va­lore delle «sue» piccole im­prese. Ora però deve batter­si per salvarle. I mesi che si aprono davanti a noi non so­no meno insidiosi degli ulti­mi, quando si è temuto il tra­collo. Fortunatamente la de­terminazione dei Piccoli è ri­masta pressoché intatta, la moratoria sui debiti qualche effetto positivo lo ha tra­smesso, più in generale è cresciuta l'attenzione per la sorte dei distretti e delle mi­cro- aziende. Ma i mercati no, quelli non hanno conces­so semaforo verde al salva­taggio. Il commercio inter­nazionale dà segni evidenti di ripresa in quei Paesi, i Bric, in cui siamo ancora re­lativamente presenti mentre i nostri mercati d'elezione non paiono in procinto di ri­partire e redistribuirci, co­me in passato, il dividendo della loro virtù. Per le azien­de — molte delle piccolissi­me — che lavorano in preva­lenza per il mercato domesti­co non arrivano notizie con­fortanti dal fronte consumi. Le città si sono addobbate per il Natale con qualche an­ticipo ma in pochi credono che vedremo negozi pieni e ressa alle vetrine.

Di fronte a queste incer­tezze i prossimi 100 giorni ci daranno molte risposte. E' difficile dire con esattez­za quante siano le aziende a rischio chiusura, si è detto un milione, si è corretto a 250 mila. Al di là del nume­ro, quella che non si intrave­de è una credibile strategia di contrasto, un program­ma coerente e snello di cose da fare. Come attesta la ri­cerca della Fondazione Nord Est, che oggi anticipia­mo, gli imprenditori la loro parte la stanno facendo: il 60% degli interpellati dichia­ra di aver subito vistosi cali del fatturato ma solo il 20% ha ridotto l'occupazione. Un dato straordinario che atte­sta il contributo delle Pmi al­la coesione sociale. Non so­lo: in un Paese immobile in cui si procede per linee oriz­zontali, per scambi tra caste e gruppi di pressione, la ri­cerca dimostra come le Pic­cole siano il luogo in cui la mobilità sociale, il famoso ascensore, funziona. Il 53,3% dei microimprenditori e degli artigiani prima di metter su bottega era un la­voratore dipendente. Non sappiamo però per quanto tempo ancora questi fattori di vitalità resteranno tali. Le comunità locali appaiono impaurite, conteggiano le perdite di occupazione, si chiedono se valga la pena o no coltivare ancora i propri simboli, siano una fiera o una scuola di specializzazio­ne. I casi positivi non man­cano, la capacità di reazione delle varie Jerago d'Italia è reale ma nei distretti si regi­stra anche tanto silenzio. E nella solitudine c'è il rischio che crescano l'ossessione e il rancore per i cinesi piglia­tutto. Da Prato a Como pas­sando per Martina Franca qualche indizio c'è.

Dicevamo programma per i 100 giorni per evitare una distruzione — per nulla creativa — di competenze e valori. Rispetto a tanti liberi­sti immaginari, i Piccoli avranno magari disertato qualche convegno però il mercato lo hanno sempre saggiato sulla loro pelle. Ma proprio perché le Pmi in Ita­lia sono cresciute a cespu­glio e mai hanno trovato in­terlocutori che le aiutassero a concepire una politica di sistema, la ricerca della Fon­dazione Nord Est ci mostra un tessuto di relazioni eco­nomiche fragile: il 77% ven­de prevalentemente nella Regione d'insediamento, il 67% è portato a vedere l'in­ternazionalizzazione come un rischio, la propensione individualistica non favori­sce un boom di aggregazio­ni, i rapporti con le banche, pur avendo superato la fase più polemica, restano ab­bondantemente sotto la so­glia delle necessità.

«Trop d’usines». Così titolava nei giorni scorsi il quotidiano Les Echos . «Troppe fabbriche» rischia dunque di essere il leit motiv dei prossimi mesi in Europa. La crisi ha palesato un eccesso di capacità produttiva che riguarda purtroppo tutti i settori, dalla siderurgia all’automotive, dal tessile persino fino alle energie rinnovabili. Ma se i programmi di ristrutturazione delle grandi imprese sono attentamente monitorati dalla politica e dal sistema bancario, per le Piccole lo scenario che si apre è quello della selezione darwiniana.

Che si può fare per impedirla?

Tagliare l’Irap in maniera che favorisca la piccola dimensione, estendere su tutto il territorio nazionale l’esempio delle regioni più avanzate (Lombardia) nella semplificazione burocratica, rateizzare i pagamenti della pubblica amministrazione ma soprattutto concepire una politica industriale per le pmi che, territorio per territorio, specializzazione per specializzazione, individui i passi avanti da fare. Se un distretto collassa le banche imbarcano sofferenze, allora non è meglio muoversi prima, riunire le comunità, incentivare le aggregazioni, studiare operazioni di riconversione, guidare i Piccoli a riposizionarsi sui mercati vincenti? Il mito dell’imprenditore con la valigetta che trova la strada di Marco Polo fa parte della narrazione più vitale dell’imprenditoria italiana, ma siamo sicuri che in tempi brevi e di fronte al cambio dei mercati possa rivelarsi ancora l’arma vincente? Una rappresentanza, un sistema creditizio e, sì, anche una politica, attenti al futuro non dovrebbero assolutamente distrarsi nei prossimi 100 giorni.

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