Più che il fisco poté la banca

Il federalismo fiscale ad Umberto Bossi non basta più: troppe sono le incertezze, soprattutto contabili, che rischiano di renderlo evanescente come un miraggio nel deserto. E così il leader della Lega sta ora puntando su un obiettivo più sostanzioso e a portata di mano dopo la copiosa raccolta di consensi nelle recenti elezioni regionali. La nuova fiaccola da accendere nei cuori (e nel portafoglio) dei suoi seguaci è sempre il federalismo, ma stavolta bancario. Magari per ripagarli del penoso esordio leghista in materia con la rovinosa esperienza del Credieuronord. All'indomani del voto, insediati due suoi uomini ai vertici di Piemonte e Veneto, il "Senatur" aveva messo le mani nel piatto senza troppi complimenti proclamando: «È chiaro che le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livello. La gente ci dice di prenderci le banche e noi lo faremo.»
Non si trattava di una delle tante sparate come quando Bossi indossa la canottiera ed evoca la marcia su Roma di milioni di padani in armi. Stavolta, purtroppo, l'annuncio era ben calcolato. Spetta, infatti, a molte amministrazioni locali conquistate dai leghisti la nomina di non pochi consiglieri di quelle Fondazioni che si definiscono ipocritamente "ex bancarie" ma continuano a detenere importanti pacchetti azionari di istituti di primissimo livello: Unicredit e Intesa-SanPaolo, per esempio. Usare queste Fondazioni come cavalli di Troia per infilare i propri uomini nei consigli di amministrazione delle banche: ecco il senso concreto e praticabile del messaggio bossiano.
Ma la campagna di occupazione si sta rivelando ora un po' più complicata di come l'avevano immaginata gli strateghi leghisti. Soprattutto sul terreno di battaglia più ambizioso, quello del colosso Unicredit. Messi in allarme dalle minacce di Bossi, i vertici dell'istituto hanno manovrato con abilità per bilanciare il peso azionario delle Fondazioni aprendo le porte del capitale a soci di peso economico e politico tutt'altro che trascurabile. Tanto che oggi il maggiore azionista dell'istituto è il governo libico con un rotondo sette per cento, mentre un altro cinque per cento è detenuto da una finanziaria di Abu Dhabi. Un dodici per cento complessivo che supera di quasi quattro punti la percentuale dei pacchetti controllati dalle Fondazioni.
L'idea che per difendersi dagli appetiti leghisti l'attuale vertice di Unicredit abbia scelto di appoggiarsi pesantemente a soldi e uomini libici è a dir poco imbarazzante, ma non priva di astuzia politica contingente. A Tripoli non si muove foglia senza che lo voglia il colonnello Gheddafi con il quale Silvio Berlusconi sta coltivando da tempo una più che affettuosa amicizia d'affari. Cosicché le smanie bancarie di Bossi rischiano ora di portarlo su una rotta di collisione con gli interessi di un grande compagno di merende del Cavaliere, secondo forse solo a Vladimir Putin. La partita è aperta. Ma già si può dire che, comunque si concluda, le mosse di tutti i protagonisti - nessuno escluso- sembrano voler dare l'ennesima conferma dell'antica legge per cui la moneta cattiva scaccia sempre quella buona.
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