A pesci in faccia

Dalla Rassegna stampa

 

Via dalla Conciliazione, più che della Conciliazione. All’ombra del Cupolone, nell’auditorium che affaccia all’imbocco dello stradone che porta al colonnato del Bernini, il Pdl allestisce un ring degno dell’epico scontro tra Cassius Clay e George Foreman del 1974 a Kinshasa. Angeli e demoni. Silvio contro Gianfranco Fini e i suoi diavoletti da cacciare dalla volta celeste dell’Unto del Signore. Il Paradiso perduto. Un nuovo ghetto per i postmissini. Tutto sulla scena. L’epicedio del fatidico dietro le quinte. Tre lustri di litigi tra le mura domestiche vomitati pubblicamente in novanta minuti memorabili. Fuori fa caldo. Il sole tortura turisti curiosi e poliziotti in assetto da guerra. Dentro, l’atmosfera è ancora più infuocata. I giornalisti condannati alle immagini dei maxi-schermi. Silvio Berlusconi conduce i lavori. Raccomanda l’ordine esteriore perché propedeutico a quello mentale. E non risparmia sberleffi al rivale, eterno figlio di un dio di minoranza. Dice: «In precedenza ho dimenticato di salutare gli altri cofondatori oltre a Fini, Rotondi e Giovanardi. Li cito adesso: Baccini, Alessandra Mussolini, Caldoro, De Gregorio, Buonocore, Nucara, Biasotti».
Il demone Fini sale sul palco poco dopo l’una. Il pranzo è servito. Pane e veleno per il Cavaliere. Anzi solo veleno. Il presidente della Camera ha la solita, appariscente cravatta rosa. Quella che indossa nelle grandi occasioni. Come quando fu eletto allo scranno più alto di Montecitorio. La pantera rosa del Pdl. Il premier rimane immobile sulla seggiola al tavolo della presidenza della direzione. Un ispettore Clouseau già col volto gonfio d’ira. Fini è laureato in psicologia. E si vede. La sua postura è provocatoria. Una mano nella tasca dei pantaloni, l’altra a reggere gli appunti, vergati sul retro di una rassegna stampa della Camera. Un intervento storico su fogli riciclati. Fini alterna lo sguardo. Cerca la platea, sosta con gli occhi su ministri ed ex colonnelli. Ma soprattutto, Fini, si gira verso il "trono" sul lato sinistro, dove il monarca del centrodestra è assiso insieme con il triunvirato La Russa-Verdini-Bondi.
La missione psicologica del presidente della Camera è fin troppo evidente. Scoprire i nervi del re. Denudarlo. Il senso è: «Io non me ne vado, piuttosto cacciami tu». Fini riserva al premier il gelo del tu col cognome: «Berlusconi te lo dico in faccia». Fa riferimento alle «bastonature mediatiche» del Giornale di Vittorio Feltri, direttore «lautamente pagato dalla famiglia del premier». E’ un momento topico. L’ex leader di An descrive le categorie del tradimento e della lealtà e avverte il premier:
«II tradimento è tipico di chi è aduso all’applauso e alla acritica approvazione salvo poi quando il leader gira le spalle dire tutt’altro».
Il Cavaliere scalpita. Batte i piedi per terra, come sempre quando è nervoso. E la prima interruzione. Le tredici e cinque minuti. Dal tavolo, Berlusconi si sporge e dice: «Non attribuire a me cose che non ho mai detto». Fini non si scandalizza e lo ferma: «Hai il diritto di replica». Sembra quasi una battuta. Forse lo è. Avanti così. Ci manca solo la De Filippi, per un’edizione speciale di quelle trasmissioni dove litigano moglie e marito, figli e genitori.
Il presidente della Camera continua a lavare i panni in pubblico. Il centralismo carismatico. L’identità persa del Pdl. Spiega però che non vuole sabotare il governo e riconosce persino due meriti al re: l’annuncio di voler fare riforme l’impegno personale e decisivo che ha dato alle regionali nel Lazio. Berlusconi non smette lo sguardo torvo. La rabbia gli deforma sempre più il viso. La stoccata di Fini arriva a ridosso dei due riconoscimenti: «Ma tu credi veramente che la lista nel Lazio non sia stata presentata per un complotto dei magistrati e di quei violenti dei radicali?».
Il Cavaliere scuote di sì la testa, con forza. Ma non interrompe. Fini processa la Lega, parla del sud e arriva allo snodo cruciale dell’immigrazione. Tenta di difendersi dalle accuse di buonismo e si appella ai valori del Partito popolare europeo. Berlusconi stavolta cambia parte. E’ incredulo, più che livido. Sorpreso. E con le mani disegna gesti chiari che dicono: «Ma queste sono piccole cose, di che stiamo a parlare». Fini infierisce: «Al nord siamo diventati la fotocopia della Lega. Qual è la nostra bandiera identitaria?». Per contrastare Bossi suggerisce al Cavaliere premier di farsi aiutare dal Cavaliere leader di partito, sfruttando sino in fondo il doppio ruolo come De Mita e Craxi nella Prima Repubblica.
Un passaggio finissimo. Anzi, Finissimo. Poi tocca il tasto dolente dei 150 anni dell’unità d’Italia. E’ l’unica volta che si rivolge al premier per nome: «Silvio, certo che abbiamo il governo, ma qual è la posizione del partito?». E «Silvio»: «Maddai stiamo lavorando tutti i giorni alle celebrazioni». Fini alterna sempre mani e occhi. Gesti e sguardi. La cravatta rosa fa pendant con una cintura chiara di coccodrillo. Il colpo più pesante è sulla giustizia e sulle leggi ad personam. Ancora una volta, è il turno del tu gelido per cognome: «Berlusconi è inutile che mostri insofferenza. Abbiamo già litigato a quattr’occhi: la prescrizione breve cancella 600mila processi. Se poi passano messaggi sul fatto che garantiamo l’impunità non ci possiamo lamentare». Siamo alla fine. Le riforme e la Lega che dà la bozza al Pdl, anziché prenderla: «Le bozze si danno non si prendono, siamo il primo partito». Fine di Fini: «Ho detto tutto. Berlusconi faccia come vuole, non mi interessa. E risolva il problema della Sicilia dove esistono due Pdl». Fini si congeda e per andarsene si dirige verso il tavolo.
Berlusconi scatta come una molla. Ma non per salutarlo. Vuole il microfono per una replica immediata. Dà la sensazione di essere caduto nella trappola provocatoria del presidente della Camera. I due si sfiorano e si danno la mano senza guardarsi negli occhi. Adesso tocca a Silvio menare. L’ira gli fa anticipare l’intervento di chiusura. Il Cavaliere lo accusa di aver esposto il partito al «pubblico
udibrio» in tv e indica i colpevoli, d’ora in poi martiri finiani sulla via dell’epurazione: Bocchino, Urso, Raisi. I toni sono da urlatore: «Diciamola tutta Gianfranco: hai cambiato totalmente posizione: nel tuo studio davanti a Gianni Letta mi hai detto di esserti pentito di aver fondato il Pdl e che volevi fare gruppi autonomi in Parlamento».
Fini è seduto in prima fila e si alza col dito puntato. Se fossero vicini, arriverebbero persino alle mani. Anche Fini grida: «Dammi una risposta sulla Sicilia». Dini e Bonaiuti, anche loro in prima fila, abbassano gli occhi, imbarazzati. La rissa prosegue. Berlusconi ribalta la tesi sul nord leghista: «La Russa mi ha detto che le idee della Lega erano quelle di An. E la Lega che è diventata la fotocopia di An». Fini rimane sulla poltrona e rosso in viso guarda La Russa: «Così gli hai detto? Bravo». E applaude ironicamente. La platea è sotto choc. Applausi e ovazioni. Ma anche sorpresa e imbarazzo. Il Pdl esplode sotto gli occhi di tutti. Al di là della consistenza numerica della corrente, meglio «dell’area politicoculturale» che il presidente della Camera intende usare per dire tutto quello che pensa.
L’epilogo dello scontro è lacerante. Una serie di «se mi consenti», di «parliamoci chiaro» e di «mettiamo le carte in tavola». Roba da mandare a memoria per decenni. Il Cavaliere rinfaccia a Fini il suo ruolo super partes: «Vuoi fare politica ma non vieni alle riunioni perché dici di essere super partes. Non sei venuto in piazza San Giovanni». Fini dalla platea: «Quello era un comizio». Berlusconi intigna: «Vuoi fare politica? Bene, ti accogliamo a braccia aperte ma dimettiti da presidente della Camera».
Fini si alza per l’ultima volta. La cravatta rosa balla. Ancora il dito puntato contro il Cavaliere: «Che fai, mi cacci?». Ripete la frase due o tre volte. Il caos è totale. Sullo schermo, l’inquadratura si allontana improvvisamente. L’obiettivo è coperto dalla spalla di qualcuno. Sullo sfondo, Fini è ancora in piedi quando Berlusconi finisce il suo intervento. Una giornata storica. Per farsi cacciare dal Paradiso berlusconiano. Chissà se ci riuscirà.

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