I pericoli del fronte dimenticato

Dalla Rassegna stampa

Il mostruoso duplice attentato che ieri a Baghdad ha causato oltre 130 morti e 500 feriti può essere interpretato attraverso due chiavi di lettura complementari.
Un’interpretazione è più concentrata sulle dinamiche interne irachene, l’altra più attenta al dato regionale. Dal punto di vista interno, occorre sottolineare che a Baghdad la sicurezza è così peggiorata da arrivare vicino all’ordinaria contabilità del terrore precedente il «surge» del generale Petraeus. La tensione tra sciiti e sunniti è ormai oltre il livello di guardia, con sparizioni, omicidi e «piccoli attentati» pressoché quotidiani. Il governo di Al Maliki resta in una condizione di debolezza estrema e la prossimità della scadenza elettorale spinge tutti i suoi oppositori a impiegare qualunque mezzo per fare sì che l’appuntamento per le elezioni parlamentari (il 16 gennaio) coincida con il licenziamento di Al Maliki. Significativamente l’attentato di ieri ha preceduto di poche ore un importante incontro tra i diversi leader iracheni, che avrebbe dovuto arrivare a un accordo in extremis sulla riforma elettorale, scongiurando così il pericolo di un rinvio delle elezioni. La cronica litigiosità dei protagonisti del circuito politico ufficiale del Paese offre infatti enorme spazio di manovra sia agli irriducibili saddamisti sia, soprattutto, alle cellule di Al Qaeda, che si sono andate riorganizzando in seguito alla sostanziale diminuzione della pressione militare americana in Iraq, che non è stata compensata da un miglioramento delle capacità di intelligence e difensive del nuovo Stato iracheno. A quasi sette anni dall'invasione che portò al crollo del regime di Saddam Hussein, nonostante lo sforzo militare profuso e a prescindere dalle somme promesse e (talvolta) elargite per rimettere in piedi le istituzioni irachene, la situazione resta ampiamente insoddisfacente.
Se allarghiamo lo sguardo all'intera regione mediorientale, poi, è impossibile non constatare come nessuna delle crisi che si sono aperte o aggravate in conseguenza dell’11 settembre 2001 è stata avviata a soluzione. La strage di ieri ha costretto tutti a tornare a interrogarsi sul futuro dell’Iraq; ma le notizie che quotidianamente giungono dall’Afghanistan non sono certo più incoraggianti, con la prospettiva di un ballottaggio presidenziale che paralizzerà ulteriormente il già diviso esecutivo afghano, a meno che un’improbabile governo di unità nazionale non riesca a scongiurarlo. Anche a causa del protrarsi del conflitto afghano, la situazione pachistana rimane senza grandi prospettive positive di evoluzione e non pare neppure che la trattativa sul nucleare iraniano registri significativi progressi. In sostanza, mentre i nuovi fronti di tensione si moltiplicano, non si riesce a chiuderne nessuno di quelli aperti da più tempo. La crisi politico-istituzionale in Libano continua a peggiorare pericolosamente, e persino le modalità con cui si cerca di tamponarla (si pensi al relativo disallineamento del maronita Michel Aoun rispetto agli alleati sciiti di Hezbollah) potrebbe finire col surriscaldare il clima politico. A Gaza, infine, non sembra proprio che la presa di Hamas sulla stremata popolazione palestinese (ma chi ne parla più?) si stia allentando.
Il paradosso è che gli Stati Uniti non sono mai stati così pesantemente e direttamente presenti in Medio Oriente come negli ultimi nove anni, eppure non sono mai apparsi così lontani dall'assicurare una stabilità soddisfacente all’intera area. Era assai maggiore la capacità americana di condizionare l’ordine mediorientale quando questa era esercitata off shore - politicamente e militarmente, attraverso gli inviati speciali e le portaerei stazionate nel Mediterraneo, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano - di quanto non sia oggi, che si può avvalere di divisioni corazzate e proconsoli. Se l’intervento politico-militare diretto non ha portato i frutti che gli Usa speravano, è però evidente che tornare semplicemente alla situazione precedente, ritirandosi dall’intero scacchiere, è di fatto impossibile. Allo stesso tempo l’America non può permettersi (e neppure l’Europa, per la verità) di abbandonare l’Afghanistan al suo destino, di lasciare che l’Iran raggiunga lo status di grande potenza regionale «in cambio di niente», o che l’Iraq precipiti in una situazione tipo Libano 1980. L'equazione «ritiro dall’Iraq e maggior coinvolgimento in Afghanistan», così elegantemente sostenuta da Barack Obama durante la campagna elettorale, efficace anche per la sua semplicità, potrebbe risultare semplicistica, così da costringere le teste d’uovo dell'amministrazione democratica a concepire una nuova vision americana per il Medio Oriente: diversa e, auspicabilmente, più efficace di quella partorita dai neocons di George W. Bush, ma non per questo meno articolata e meno ambiziosa.

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