Perché Roma ha ignorato il rischio libico

Dalla Rassegna stampa

Alla fine, in Tunisia e in Egitto, sono stati i potenti apparati militari a prendere in mano le redini di situazioni tumultuose, prive di uno sbocco politico e istituzionale immediato. Saranno le forze armate, dunque, a traghettare - così si spera - quei paesi verso la democrazia. Ma in Libia? Il paese nordafricano è molto più simile alle remote Nord Corea e Birmania che non ai paesi limitrofi per la notevole opacità delle sue strutture e dinamiche di potere, compreso il ruolo reale dell'élite militare. Da quel che si capisce, ciò che più conta a Tripoli è la trama costituita dai diversi clan. E sarà all'interno del sistema tribale che si deciderà la sorte di Muammar Gheddafi e del suo regime. Intanto, a riprova della centralità della cultura e del potere clanico in Libia, si è appreso che i manifestanti della tribù della città di Nalut hanno interrotto l'invio del gas verso l'Italia, per protesta con il nostro governo per la posizione assunta di fronte al conflitto civile libico.
Ora, una notizia così grave e così precisa lascia stupefatti. È possibile che le autorità italiane e l'Eni avessero così assurdamente sottovalutato, per tanto tempo e fino a ieri, il radicamento e il potere territoriale dei clan in Libia, presupponendo che il Colonnello controllasse capillarmente il territorio libico e fosse garante della nostra sicurezza energetica? Come dicevamo, l'opacità dei rapporti di potere in Libia può anche giustificare l'incapacità italiana di conoscere davvero il "chi è chi?" della cupola libica, anzi delle cupole libiche, e di approntare le azioni idonee per intervenire appropriatamente e con la giusta tempistica. Ma fino a che punto la complessa macchina informativa - Farnesina, Interni, Servizi - può auto-assolversi di fronte alla sua evidente débàcle?
Nel nostro piccolo, un giornale come Europa, contando su notizie di cui dispongono tutti, si chiedeva il 10 novembre scorso: «Che succede sotto la tenda del raìs? È ancora lui la guida incontrastata della Libia, o è già iniziato il dopo Gheddafi?». Era il giorno in cui, grazie a un emendamento del radicale Matteo Mecacci, fu bocciato dalla camera il trattato di amicizia italolibica. Sarebbe stata un'occasione, quella bocciatura, per rivedere lo stato dei rapporti italolibici e per favorire e aiutare la svolta riformatrice che, in quei giorni, sembrava prendere corpo a Tripoli. Invece, scrivevamo ancora, «puntando le sue carte su un rapporto personale con Gheddafi e con il suo attuale entourage, Silvio Berlusconi ha costruito un ponte con la parte sbagliata dell'altra sponda, quella apparentemente con le redini del potere saldamente in mano; e che, invece, proprio in queste ore, è duramente messa in questione da un'opposizione, con tratti di rinnovamento democratico, che non nasconde più le sue intenzioni contro un vertice considerato corrotto e inetto».
Allora si trattava di offrire, da parte di Roma, una sponda robusta al tentativo riformatore all'interno del regime guidato dal figlio di Gheddafi, Seif al-Islam, l'unico della prole con la testa sulle spalle, sostenitore di un ritorno sulla scena del pragmatico maggiore Abdessallam Jallud, uno dei giovani ufficiali del colpo di stato che nel 1969 portò Gheddafi al potere. Ricordare quel tentativo serve soprattutto a sottolineare come, diversamente dal senso comune corrente, lo scoppio della Libia non è soprattutto il risultato dell'effetto domino delle rivolta nel Nord Africa. Certo, le insurrezioni tunisina ed egiziana hanno reso possibile quello che solo qualche settimana prima molti ritenevano impensabile, a Tripoli e in altre capitali arabe. Ma come ignorare che, ormai da tempo, la situazione libica - specie in Cirenaica, con i ripetuti disordini a Bengasi stava diventando esplosiva?
La responsabilità più grave di questo governo - ma anche dei precedenti, ma anche della variegata lobby filo-libica - non è tanto quella di aver trattato con tutti gli onori un despota evidentemente fuori di testa, accontentandone le più capricciose stravaganze, quanto quella di aver stretto patti e affari con un personaggio totalmente screditato in casa sua, e perfino privo di quel controllo dittatoriale che pure per decenni - prima del ritorno nell'ovile dei paesi filo-occidentali - era in grado si esercitare, mescolandolo abilmente, finché ha potuto, con una discreta elargizione alla popolazione dei proventi del petrolio. E ieri, la scena grottesca del suo discorso alla nazione - e ancora più quella del giorno prima, sotto un ombrello - dava il senso perfetto di una maschera tragica e comica d'altri tempi a cui solo l'insolente dabbenaggine di Frattini poteva dar credito, anche fuori tempo massimo.

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