Perchè ci interessa se l'Albania vuole convertirsi al nucleare

Piccola potenza nucleare dei Balcani o discarica energetica d'Italia, come temono gli ambientalisti albanesi? Da tre anni a questa parte Roma e Tirana si fanno l'occhiolino e sventolano l'idea di costruire sulla sponda est dell'Adriatico una centrale atomica. Lungo l'asse con l'Albania si sono mossi parecchi ministri - da Frattini a Scajola fino allo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E in tutto questo periodo il leader albanese di lungo corso, il sessantacinquenne ex chirurgo Sali Berisha, non ha mancato di ricambiare, e di rilasciare dichiarazioni al limite del roboante: venite da noi, vogliamo diventare (appunto) "una piccola superpotenza energetica dell'area balcanica". Dal 2007 l'ha detto e ripetuto più volte, l'ultima a Palazzo Chigi durante la visita di metà febbraio, quella dell'infelice battuta sugli sbarchi "ammessi solo alle belle ragazze". Il canovaccio, insomma, pare diventato un po' logoro, e lascia pensare che tutto sommato la discussione su una centrale oltremare non stia facendo passi in avanti.
Ma è proprio così? La prudenza suggerirebbe "mai dire mai", visto che la partita del nucleare albanese si intreccia con quella italiana. Nel novembre del 2007, quando al governo c'è ancora Prodi (che al rilancio del nucleare civile non ci pensava proprio), Berisha va in contropiede e annuncia senza esitazioni che l'Albania punta sull'energia dell'atomo. Pochi mesi dopo alla vigilia delle elezioni politiche 2008 - il ministro dell'economia in pectore, Giulio Tremonti, lancia l'idea della sponda energetica adriatica. Berisha coglie la palla al balzo: «La mia decisione è di non escludere gli albanesi da questo grande potenziale», dice subito dopo a Francesco Battistini del Corriere. Sembra fattibile: Berlusconi ha messo nel suo programma per la legislatura il rilancio dell'energia elettronucleare, e da quel momento le visite Roma-Tirana si infittiscono. Nei corridoi
iniziano anche a girare dei nomi. Uno, Durazzo, per la localizzazione dell'impianto. Un altro, l'Enel, per l'azienda che dovrebbe mettersi in azione.
Ma mentre per le controparti italiane la faccenda rimane confinata nell'ambito della diplomazia
balcanica (almeno per ora), la situazione pare un po' diversa per gli albanesi, che hanno proseguito per la loro strada. Senza tanto clamore il 20 gennaio scorso hanno deciso la costituzione di un'Agenzia nucleare (l'Akob), un passo necessario per chiunque voglia entrare nel club ufficiale dei produttori di elettricità con la fissione dell'atomo. Non molto prima, lo scorso settembre, la delegazione di Tirana presso l'Agenzia internazionale dell'energia atomica di Vienna
(la stessa che vigila sull'Iran) aveva ribadito la propria determinazione: «Il governo albanese sta prendendo in seria considerazionela possibilità di esplorare l'uso di tecnologia nucleare per la produzione di energia. I passi iniziali sono stati fatti e la cooperazione con l'Agenzia è sulla
giusta via».
Anche se il 70% della sua popolazione è musulmana, l'Albania non è l'Iran e Berisha non somiglia ad Ahmadinejad. Tutt'altro: Tirana spinge sull'Italia perché acceleri il suo ingresso nell'Unione europea; dall'aprile dello scorso anno fa parte a pieno titolo della Nato. E di energia elettrica il Paese delle Aquile ha bisogno, eccome. Anche se è la centodiciassettesima economia mondiale e il centoventicinquesimo Paese al mondo per consumi elettrici (l'Italia è tredicesima), soffre per continui blackout. Un mese fa, quando il Real Madrid ha giocato a Tirana in amichevole contro il Gramozi del potente petroliere Rezart Taci è mancata la corrente allo stadio per novanta minuti. Non c'è da stupirsi: l'elettricità è prodotta per il 90% con impianti idroelettrici, costruiti ai tempi del regime comunista e soggetti all'andamento delle stagioni. L'economia (quella ufficiale) è cresciuta del 6% nel 2007 e nel 2008, facendo lievitare la domanda.
Certo, i quattrini sono pochi e le non ci sono. Bisognerebbe poi affrontare il problema capitale delle scorie e del loro deposito. Ma ciò non ha impedito agli albanesi di discutere la scorsa primavera della costruzione di un reattore in joint-venture con la Croazia nella regione di Scutari, sulle rive del lago che divide Albania e Montenegro. Solo la reazione allarmata dei montenegrini, preoccupati per le conseguenze ambientali, e il disinteresse dei bosniaci, ritenuti entrambi partner indispensabili, avrebbe fatto rientrare il progetto, poi smentito. Un impianto atomico su territorio albanese potrebbe essere un azzardo, ma potenzialmente anche un buon affare. Con i megawatt messi a disposizione ce ne sarebbe in abbondanza per coprire il fabbisogno elettrico interno e per vendere energia ai vicini: a Bosnia e Croazia, al Montenegro, alla sospettosa Serbia e alla Macedonia. Persino alla Grecia, tanto che l'impianto, secondo alcuni, potrebbe vedere la luce nei pressi del confine greco-albanese. Sull'energia si starebbe già aprendo una competizione balcanica: se si dà retta alle voci rintuzzate dai portavoce ufficiali di Belgrado, anche il governo serbo avrebbe iniziato a sviluppare l'idea di una centrale, a braccetto con i russi di Rosatom.
PER ORA PENSIAMO AL CARBONE
E l'Italia? Se è vero che l'energia elettrica di un reattore albanese a partecipazione italiana farebbe comodo, consentirebbe (in teoria) di bypassare il nodo delle scorie e fare buoni profitti, non pare proprio che all'Enel abbiano mai fatto fuoco e fiamme per lanciarsi in un'avventura del genere. Intanto ci vorrebbe un cavo adeguato, che ora non esiste, per collegare le due coste adriatiche e consentire l'esportazione di elettricità. E poi, ad alimentare lo scetticismo, c'è la considerazione che l'Albania è quasi completamente territorio sismico, soprattutto sulle coste. Costruire un reattore nucleare in una zona soggetta a scosse sarebbe delicato, e costerebbe un buon 20% in più, senza contare l'allungamento dei tempi. Ecco allora che, come nel vicino Montenegro, il gruppo italiano ha sposato una strategia diversa, candidandosi a realizzare una centrale a carbone da 800 megawatt a Porto Romano, otto chilometri a nord di Durazzo, e a costruirsi, a proprie spese, una linea di trasmissione verso l'Italia lunga 210 chilometri.
Se supererà la concorrenza dei tedeschi di Rwe, in 4-5 anni potrebbe fornire al Paese delle Aquile tutta l'elettricità di cui ha bisogno e, anzi, ne esporterà più di metà verso il mercato italiano. Poi, forse, si potrà anche parlare di nucleare.
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