Il pd non si culli sulla crisi del bipolarismo

Dalla Rassegna stampa

 

Non è ancora finito il coro sulla morte del bipolarismo britannico - che molto probabilmente risorgerà dalle urne tra qualche mese, come ha saggiamente avvertito Angelo Panebianco - e siamo alle prese con la proposta casiniana del governo di salute pubblica, che non si sa se sia tecnico o no, con Berlusconi o senza, ma certamente con l’Udc.
Non voglio fare a Casini il torto di accusarlo di mirare alle poltrone; non di questo si tratta. Si tratta invece di una cultura, di una concezione della politica che ha avuto già in passato molte responsabilità nell’impedire la crescita di una dialettica efficace tra i partiti e quindi anche di una loro efficace capacità di governo. E che non è certo in grado di dare risposte utili oggi, di fronte a una crisi che (in Italia come in Gran Bretagna) è dei soggetti politici che sono in campo - nella maggioranza e nell’opposizione - e non del bipolarismo in quanto tale.
Il Labour, come il Pd e come tutta la sinistra europea, non riesce a elaborare una nuova strategia e non gli resta che recuperare un volto antico (quello impersonato da Gordon Brown) che nello stesso tempo gli impedisce di vincere ma lo fa reggere nei ceti popolari. La destra italiana, a differenza dei Tories, ha convinto al momento delle elezioni, ma cede, come al solito, alla prova del governo. Il terzo polo di Clegg, tanto esaltato, si è sgonfiato come una bolla di sapone; le prospettive di Casini non sono certo migliori. Proprio dall’impasse della strategia del terzo polo, segnata dalle elezioni regionali, nasce la proposta del governo di salute pubblica. Che forse avrà degli sponsor nei cosiddetti poteri forti, ma ciò non fa che confermare che si tratta di una strada che indebolirebbe ulteriormente la politica. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, tanto più di fronte alla temuta crisi della moneta e delle istituzioni europee, è una politica forte, una politica capace di costruire intorno alla sua guida l’unità del Paese. E oggi il problema dell’Europa come Unione e dei suoi Stati membri singolarmente considerati (con la parziale eccezione della Germania; ma le esitazioni della Merkel sugli aiuti alla Grecia, e la sua sconfitta nel Nordreno, mostrano che anche lì la guida politica si indebolisce).
Questa fragilità della politica, questa incapacità di definire obiettivi unificanti, è ancora più grave della crisi finanziaria ed economica. Perché ci lascia senza strategie per affrontarla. Perciò ha fatto bene
il Pd - una volta tanto unito - a rispondere no alla proposta di Casini.
Il problema del Pd è costruire una alternativa credibile a questo governo, che si sfalda progressivamente senza che i consensi per il centrosinistra aumentino. Ma ciò comporta darsi una linea politica, una strategia, una prospettiva, che vada oltre l’attesa che la maggioranza si sfasci, magari per dar vita a un governo di transizione, e oltre la semplice ricerca di una rete di alleanze. Le alleanze sono importanti per vincere le elezioni, ma non possono surrogare la definizione di una proposta politica.
A questo dovrebbe servire l’assemblea del 21-22 maggio. Vedremo; sinora si è visto poco o niente. E le reazioni un po’ stizzite all’assemblea di Area democratica non fanno ben sperare. Il confronto con la minoranza dovrebbe svilupparsi sulle idee, sulle politiche. Bisogna dire che alla prospettiva del Lingotto, ribadita con forza da Veltroni a Cortona, non si è finora contrapposta una concezione o una pratica alternativa di che cos’è il Pd. I temi che vengono contrapposti alle tesi veltroniane sono soltanto quello delle alleanze, che dopo il flop delle regionali è molto indebolito, e quello del ridimensionamento delle primarie: il colmo dell’autolesionismo per un partito che ha sperimentato la fiducia del suo elettorato in questo strumento. Un po’ poco per una linea politica.
Le elezioni potrebbero non essere lontane; servono idee, scelte coraggiose, battaglie decise, per non ritrovarsi sballottati tra Di Pietro e Casini, tra i radicali e i cattolici. Vocazione maggioritaria, alla fine, significa questo: definire una identità politica autonoma, senza la quale non si guadagna la credibilità che è necessaria per costruire - con le opportune alleanze - una alternativa di governo.

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