Il Pd lombardo non è più sicuro

Dalla Rassegna stampa

Chiamare Matteo Renzi e fissargli una giornata di comizi in giro per la Lombardia, concordare con Giuliano Pisapia una serie di uscite pubbliche a sostegno del candidato Umberto Ambrosoli, muovere un po' di big nazionali del partito, a costo di distoglierli dalle loro circoscrizioni e dai loro collegi della politiche.
Tira un brutta, bruttissima aria al numero 2 di via Antonio da Recanate a Milano, sede del Partito democratico «della Lombardia». La scienza demoscopica, di colpo, qualche giorno fa, ha detto che quella che pareva una partita vinta a mani basse, e cioè Ambrosoli presidente lombardo col centrosinistra in carrozza, sarà una guerra di logoramento nel mese e spiccioli che ci separa dal voto. E che questa guerra può essere perduta. Maurizio Martina, segretario regionale, giovane ex-diessino bergamasco, consigliere uscente, sa benissimo che tutti gli occhi sono puntati su di lui. Sa bene che sul suo nome s'era discusso a Roma, a Largo Nazareno, sede del Pd nazionale. Che era stato Pier Luigi Bersani in persona, esaminando il listino bloccato con Vasco Errani, governatore emiliano ormai vice a tutti gli effetti, e Maurizio Migliavacca, fido capo della segreteria, a dire no: «Martina deve rimanere il Lombardia». Secondo lo schema delle primarie di coalizione, tutti o quasi i segretari regionali che avevano cooperato al successo bersaniano erano finiti nelle teste di lista per le politiche o quasi.
Era stato così per il toscano Andrea Manciulli, l'unico ad averle perdute quelle primarie, sopravanzato dai renziani, figurarsi per lui che in Lombardia aveva saputo portare a Bersani un risultato egregio con Renzi tenuto a distanza salvo un paio di province, Lecco e Como.

Ma, appunto, quando si era arrivati al suo nome, tutti i big si erano trovati concordi nel dire che «Maurizio deve guidare la campagna lassù», consapevoli della necessità, per i democrat, di fare un buon risultato e quindi poi, in fase di realizzazione della giunta, mettere un fermo alle pretese che Ambrosoli e il suo irritante entourage, fatto di troppi professoroni, avrebbero certamente avanzato. Oltretutto, erano stati proprio gli ambienti ambrosoliniani, nei giorni scorsi, quando il nome del segretario era uscito sulla ruota romana della lotto parlamentare, a storcere il naso: il capo del Pd che lascia in una battaglia cruciale, Avevano detto neppure troppo a mezza voce, non sarà un brutto segnale? E infatti poi da Roma, avevano rimediato: Martina non solo ci sarebbe stato, ma avrebbe guidato la lista.

Ma poi, e pare davvero il secolo scorso, era accaduto quello che sembrava impossibile: il Pdl dilacerato, con i capataz in fuga, disposti persino a inventarsi nuovi soggetti politici pur di non restare, col Cavaliere apparentemente incerto sul da farsi, col grande ingombrante inquilino di Palazzo Lombardia, Roberto Formigoni, ormai pronto per sostenere il kamikaze centrista Gabriele Albertini avevano trovato la quadra col Carroccio veniva dato per morto. E i sondaggi, appunto, li ridavano avanti. Addirittura di tre punti. Altro che piazzarsi bene per dare l'altolà alle civiche fisime di Ambrosoli e dei suoi consigliori: qui c'è da salvare la vittoria e l'ingresso degli eredi della sinistra, da sempre esclusa da quanto esiste la Regione salvo un grossa coalizione al tempo di Tangentopoli, nei palazzi del potere lombardo.

E c'è da salvare la testa, perché perdere la Lombardia significherebbe inficiare la vittoria di Bersani a Roma e magari, al Senato, renderlo ostaggio di Mario Monti. Che Renzi venga su, allora, ripetono gli addetti alla campagna. Non aveva detto che avrebbe sostenuto lealmente Bersani? Se saltiamo noi, saltiamo tutti. E Pisapia, che di Ambrosoli era stato il grande sponsor, penserà mica di fare un passo indietro proprio adesso? Solo che per salvare il soldato Ambrosoli, ci vorrebbe la disponibilità di Ambrosoli stesso, ha fatto notare qualcuno. L'irrigidimento di «Beto» sulla lista radicale proprio non ci voleva. Il candidato civico, secondo la cronaca milanese del Corsera, non accetta il simbolo con la parola «amnistia» col quale gli uomini di Marco Cappato si presenteranno: «Temi che esprimono evidente estraneità rispetto alle tematiche regionali devono restare a margine, anche nelle diciture formali, dal perimetro politico-programmatico», si sarebbe impuntato l'avvocato.
Notizia che non ha dato tempo di gioire di un nuovo sondaggio, targato Ipsos, che dà Ambrosoli un filo avanti. Tutti, al numero 2 di via da Recanate, a due passi dalla Stazione Centrale, sanno bene che quel filo può spezzarsi. E fuori, Milano, dove un pallido sole ha scongiurato la neve, pare ancora più grigia.

 

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