È partita la missione

Dalla Rassegna stampa

I giornalisti si passano le foto dei ministri sconosciuti, i cameramen sono costretti a riprendere i nuovi eroi dal didietro e fanno paragoni irriverenti, i nipotini con le mini cravatte si distraggono appresso ai pennacchi dei corazzieri e si perdono il giuramento del governo dei nonni. Quattro giorni che Berlusconi si è dimesso e sono già qui nel salone delle feste del Quirinale i quindici dell'ave Maria, Mario Monti e i suoi quattordici ministri con ottimi rapporti Oltretevere. Quattordici perché mancano i due «americani», uno a Washington e l'altro a Kabul. Due ministre in primo piano, Corrado Passera in fondo a destra, la terza ministra in seconda fila e al centro per la foto di gruppo. Sono tutti, donne e uomini, vestiti come il nuovo corso prescrive - «sobri» - e per niente impacciati. Sono tecnici ma uomini di mondo e non a disagio con il potere. Il nuovo Gianni Letta, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, si tiene appena un po' in disparte da buon testimone dell'ancien régime nel nuovo. Gianni Letta quello vero alla fine è rimasto fuori ma è dentro il primo pensiero di Giorgio Napolitano che a lui dedica mezzo comunicato ufficiale, un «ringraziamento speciale» che ha il senso di un'ultima tirata d'orecchie a Pierluigi Bersani che si è messo di traverso e ha impedito la permanenza al governo dell'«eminenza azzurrina». Pazienza, ora i presidenti di camera e senato dovranno trovare un nuovo presidente dell'Antitrust e potrebbero rimediare all'esclusione.

Dopo il giuramento, veloce e senza intoppi al di fuori dell'equivoco di Piero Gnudi che stava andando via senza stringere la mano a Napolitano e Monti, i neo ministri filano via scansando le domande. Solo i più navigati come Passera e Riccarda si concedono ai microfoni riuscendo a non dire niente. La professoressa Severino, nuova guardasigilli, intercettata in uscita sullo scalone assicura di aver saputo della nomina solo ieri mattina, poi dice che un intervento per l'emergenza carceri sarà «una delle prime cose da fare». I «tecnici» sperimentano le auto blu per una corsa a palazzo Chigi dove, il primo Consiglio dei ministri assegna le deleghe ai cinque ministri senza portafoglio. Tra loro c'è Fabrízio Barca che Napolitano conosce bene essendo il figlio di Luciano, vecchio comunista e antico avversario nel Pci del presidente della Repubblica. Il quale capo dello stato alla fine di una fatica che in sette giorni l'ha portato a chiudere un governo e inaugurarne un altro si dichiara «soddisfatto». L'ultimo lavoro è stato quello di sistemare ogni ministro nella casella giusta, il puzzle si è portato via le due ore dell'incontro di ieri mattina con Monti che in teoria doveva servire solo per far sciogliere la riserva al presidente incaricato. «La costituzione di questo governo è stata delicata e difficile anche per la sua carica di assoluta novità», dice il presidente della Repubblica. Poi parte con l'omaggio a Gianni Letta «per la continua e scrupolosa collaborazione istituzionale, per la sensibilità, la competenza e lo spirito di servizio con cui ha contribuito a tenere vivo e limpido il rapporto tra il presidente della Repubblica e il governo nell'interesse generale del paese e della coesione nazionale e sociale».

Parole alle quali Bersani replica indirettamente poco dopo, assicurando che il Pd «non ha mai pensato di usare il bilancino» nelle nomine. Il segretario non ne ha fatto una questione di nomi, se ha detto no a Letta, spiega, è stato perché c'era bisogno di «discontinuità». E se ha rifiutato anche Amato è perché «l'ipotesi rientrava in un sistema di criteri e condizioni che non corrispondeva a quanto avevamo in testa noi». Cioè Napolitano e Monti volevano metterglielo in quota Pd in cambio di Letta: inaccettabile anche se, assicura Bersani, «di Amato ho una stima grandissima». Il segretario rivendica al Pd le dimissioni di Berlusconi: «Abbiamo lavorato per la svolta e la svolta c'è stata». Ma subito ammette che con il governo Monti per il partito non sarà facile: «È evidente che ci potranno essere problemi sulle misure che l'esecutivo dovrà varare», dice, è già annulla i margini di manovra: «Se pensassimo di votare solo le misure sulle quali siamo d'accordo al 100% non faremmo questa fatica». Intanto Di Pietro si è sistemato nell'angolo, l'Idv voterà la fiducia oggi e domani «ma non vogliamo essere considerati nella maggioranza».

E così Monti a palazzo Chigi per la cerimonia del passaggio di consegne trova un Berlusconi sorridente e cordiale. Che gli fa tanti auguri e se ne va tra gli applausi dei dipendenti e l'indifferenza dei passanti. Scena diversissima dall'addio del '95, quando i suoi presero a far gazzarra in strada contro il golpe dei tecnici e lui si mise a gridare con Lamberto Dini. «Tanto tornerò», disse allora al suo successore, e lasciò i mobili nell'ufficio. Stavolta ha portato via tutto e a Monti ha detto: «Ci vediamo alla camera».

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