Parlare di donne nell’era del bunga

Spero proprio che finisca presto il diluvio mediatico sul bunga bunga. Non solo perché ogni limite di decenza è stato già varcato, e un po’ come accade con l’accumulo dei rifiuti l’olezzo è insopportabile. Spero che finisca presto perché a fronte di quel ristretto numero di donne protagoniste dell’"affaire" vi è un numero sterminato di soggetti di genere femminile che paga in mille modi questa condizione, in Italia più che in qualsiasi paese d’Europa, e delle quali si parla troppo poco.
Essere penultimi tra i 27 paesi dell’Unione europea, per il lavoro delle donne, solo prima di Malta, non ci può davvero consolare. Mi attirerò qualche antipatia ma se è vero che le donne sono l’altra meta del cielo è anche vero che metà delle colpe che costituiscono la loro scadente condizione è proprio colpa delle donne. D’accordo, si svolgono preziosi convegni come quello promosso da Pari o Dispare (una associazione autorevole fondata da Emma Bonino e Cristina Molinari assieme a tante altre), in solenni sedi istituzionali, era ospite del Senato, e con la partecipazione di donne portatrici di indiscutibile impegno politico. Ma è triste vedere che troppo spesso su questa materia ci si limita a severe e qualche volta indignate constatazioni. Il fatto è che la macchina che dovrebbe produrre una autentica parità è costruita più con le parole che con i fatti e che la politica ascolta le donne ma non le sente. Eppure i dati per capire l’utilità, anche soltanto ridotta in soldoni, non mancano: i circa 3 miliardi e 750 milioni risparmiati dallo Stato a seguito dell’equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nella pubblica amministrazione sono solo un esempio. Ci sono poi i calcoli sui punti di Pil che il nostro paese guadagnerebbe (e quanto ne avrebbe bisogno) con l’aumento del lavoro femminile: Paola Profeta e Alessandra Casarico, due tenaci ricercatrici che al tema hanno dedicato, inascoltate, anni di studio, nel loro ultimo libro "Donne in attesa" hanno calcolato per ogni 100mila donne in più al lavoro il Pil avrebbe un incremento dello 0,8% e che se ci avvicinassimo alla percentuale minima di lavoro femminile indicata dall’agenda di Lisbona nel 60% (in Italia siamo a un vergognoso 46%) il Pil avrebbe un’impennata del 7%, altro che finanziarie lacrime e sangue. Riflessioni incendiarie, roba che, se presa sul serio, potrebbe far saltare interi governi, ridurre in cenere interi programmi elettorali, rivoluzionare voci di intere manovre economiche. E invece non accade nulla. La questione femminile rimane una questione di genere fuori dal dibattito politico e da quello economico. Se le intelligenze e le analisi non mancano, è debole la forza di imporle nelle più diverse sedi con martellante continuità e implacabile fermezza. E lo dico soprattutto dal punto di vista della convenienza economica, della trasformazione della società in senso moderno. Ci lamentiamo ad esempio che l’Italia è a crescita zero: sono nati 12mila bambini in meno rispetto a un anno fa. Le donne non fanno figli, ma pochi sanno che solo 9 bambini su 100 trovano un posto all’asilo nido e che le loro madri o lavorano per pagare la babysitter o non lavorano per accudire la prole. Ma c’è di più: il rapporto tra occupazione e fecondità, che era tradizionalmente negativo oggi ha cambiato segno. In sostanza, nei paesi in cui ci sono più donne al lavoro il tasso di natalità è più alto. E infine l’ultimo dato che riguarda tutte e che andrebbe ricordato all’inizio e alla fine di ogni telegiornale: il 48,9% delle donne italiane non ha un lavoro e nessuna prospettiva di ottenerlo, anzi non lo cerca neppure più. E dire che in una società che aspira a fare della meritocrazia il suo "orto delle meraviglie" (per ora non è neanche un orticello) le femmine sono meglio dei maschi negli studi (su 100 ragazzi che si laureano 60 sono donne e 40 uomini) e anche sul lavoro sono più affidabili e spesso rendono di più. Siamo più brave in tante cose ma non possiamo fare carriera perché la nostra crescita non la decide la competenza ma la valutazione che ne danno gli uomini ostinatamente attaccati ai loro privilegi. Persino nel governo, che le vuole giovani e belle, le donne spesso piangono, si disperano, si dimettono e poi tornano a Palazzo Chigi là dove le aspetta un uomo per rassicurarle e proteggerle. Per questo il terreno del dibattito puro e semplice non basta più. Se le quote rosa, prima quelle in politica e ora quelle meno visibili ma più importanti nei consigli di amministrazione, hanno sollevato qualche comprensibile ironia (l’orgoglio femminile sembrava mortificato da quella logica da specie protetta) una soluzione diversa non è stata trovata. Si imponga allora almeno il loro rispetto e poi si apra la ricerca delle forze migliori in campo.
E giacché mi sono infilata in questa critica/autocritica la dirò tutta. Troppe donne litigano tra loro, innescando atroci duelli e chiamando a sé per vincere la complicità degli uomini. La compattezza di genere dovrebbe diventare la prima barriera in difesa delle donne. C’è poi il dovere di chi riesce a imporre la propria qualità di promuovere quella delle altre anziché dimenticarsene, quasi a scongiurare una indesiderata concorrenza. Insomma le donne che arrivano devono guardarsi indietro e aiutare le altre a compiere il cammino. Un cammino lungo, che non riesco neppure a vederne la fine. E tuttavia inevitabile, altrimenti la puntura del bunga bunga finirà per produrre assuefazione. La più grande delle iatture.
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