Il paragone (impossibile) con gli anni 70

Dalla Rassegna stampa

Caro Direttore, nei giorni scorsi, dopo la sciagurata aggressione a Berlusconi e la bomba alla Bocconi, molti si sono domandati se l’Italia debba rivivere i tempi, ormai lontani, degli anni Settanta-Ottanta.

Come altri, anch’io ritengo stucchevole fare comparazioni impossibili. C’è, tuttavia, un insegnamento di quegli anni che può essere convenientemente raccolto.

C’era il pericolo, all’inizio, a ridosso del ’68, che le forze politiche, come la Dc, il Pci, lo stesso Psi si rinfacciassero la violenza che si rovesciava sulle strade, con esiti pericolosi per la tenuta del Paese. Nel famoso grido: «Né con lo Stato né con le Br» bene si rifletteva il pericolo che correva la Repubblica. Ma la Repubblica è riuscita a resistere con una politica complessiva laica, non ideologica, ancorata alla Costituzione. Impresa tutt’altro che facile perché, se esiste un fenomeno intorno al quale si scatenano tutte le ideologie del mondo, questo fenomeno è la violenza politica. Se i partiti si fossero misurati sul tasso di violenza, diretta o indiretta, di cui la loro storia era connotata, la violenza sarebbe dilagata. Così non è stato.
Anche quando il pericolo è diventato più forte si è ritenuto che fosse importante tenere i piedi per terra, tenersi lontano dai fumi di una inconcludente disputa sulla violenza, ancorarsi alla Costituzione, ai valori di libertà, far leva su di essi e combattere tutto ciò che ne era la contraddizione, armata o non armata che fosse la violenza. A favorire questa politica ha contribuito non poco nei partiti maggiori, pur fra loro antagonisti e alternativi (basti pensare alla Dc e al Pci), il comune riconoscimento del quadro costituzionale, la coscienza della casa comune, luogo e insieme garanzia del loro dibattito e delle loro iniziative. Dal canto suo il governo ha rinunciato a leggi speciali, tipiche di uno Stato autoritario, che avrebbero diviso le forze politiche e portato acqua ai gruppi eversivi e violenti.

Questo è l’insegnamento che viene dalla storia di ieri e che ho voluto ricordare perché ancora può essere utile. Oggi, infatti, c’è nel Paese un circuito di violenza pericoloso; è una violenza soprattutto di parole che vengono dalla politica mentre la società, al contrario, vive drammaticamente la sua crisi ma con grande senso di responsabilità. Sono parole violente provenienti anche dai piani alti della politica che i media registrano puntualmente, rendendole ancora più dure. Di aggressività verbale (ovviamente personalizzata perché, purtroppo, è diventata personalizzata la stessa politica o parte di essa) un Paese può anche morire. E, in verità, oggi in Italia si è quasi soffocati da questo ciarpame, da questa pretesa di vedere campagne di odio dovunque c’è critica. Si sono ascoltate accuse di parzialità nei confronti di istituti di garanzia. Pare scomparsa del tutto l’idea che uomini che hanno alle spalle storie di militanza politica, divenuti componenti o titolari di questi istituti, svolgano il loro mandato con assoluta obiettività. La stessa cosa si è soliti sentire rinfacciare ai giudici e pubblici ministeri più esposti. Sembra perduta l’idea stessa della «regola». Pensare che essa possa essere rispettata nei comportamenti concreti di chi vi è sottoposto, sembra la consolatoria illusione di un uomo fuori dal mondo. Ecco perché di aggressività verbale, di parole velenose e inutili si può anche morire. «Torniamo alla Costituzione», vien voglia di dire, a quell’insieme di regole ultime che è la Carta suprema. Non è retorica, è un dovere per tutti.

La tumultuosa vicenda politica del Paese, incanalata negli spazi costituzionali, previsti dalla Carta del ’48, vi trova sempre la garanzia del suo componimento, la chiusura, giusta o possibile, di un processo decisionale che non può rimanere aperto in eterno. Anche il dibattito politico che precede, segue, sanziona, interrompe o abbandona questo processo, non può essere estraneo allo spirito della Costituzione dove i principi e le regole basilari impongono il «disarmo» verbale, la rinuncia all’aggressione personale, alla campagna di odio, fantasticata o vera che sia. In altri contesti civili basterebbe il richiamo al «costume», ma dove il costume politico è poca cosa e la sua voce è fioca, sarà pur consentito il richiamo alle regole e ai principi costituzionali. Tra l’altro, questo richiamo è bivalente; può mettere in guardia contro uno spericolato e temuto svuotamento della Carta del ’48.

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