Il paradosso del Governo avanti sull'economia bloccato sui processi

Dalla Rassegna stampa

Le convulsioni sui rapporti fra governo e magi­stratura, e la cauta soddisfazione sull’andamen­to dell’economia, fotografano il paradosso di una coalizione che sembra in bilico eppure non può cadere. La legge sul «processo breve» rimane assediata dall’incertez­za e dai veleni. E ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha invitato a non confonderla con la riforma della giu­stizia. Ma intanto il ministro dell’Economia, Giulio Tremon­ti, rivendica come un risultato straordinario che siano state fatte «cose normali in un periodo non propriamente norma­le ». La cena di ieri da Silvio Berlusconi, con Tremonti e con Umberto Bossi, conferma un’alleanza imperniata sul rappor­to fra Pdl e Lega.

Si tratta di una mezzadrìa politica che tende a dare comun­que una soluzione al problema della durata dei processi nei quali è coinvolto il presidente del Consiglio: la considera il miglior antidoto contro l’instabilità e contro la tentazione di interrompere la legislatura. Non a caso ieri il Carroccio ha sostenuto che non è la politica a voler mettere sotto tutela i magistrati ma semmai il contrario: almeno da parte di «alcu­ni pm». In realtà, non c’è ancora un testo capace di mettere d’accordo l’intera maggioranza e di ottenere almeno la neu­tralità dell’opposizione. Esiste un’intesa da riempire.

In parte pesa il voto di prima­vera per le regionali, che rende Pd e Udc ancora più duri verso Berlusconi, avvicinandoli al­l’estremismo dipietrista. Ma la confusione nel centrodestra contribuisce a rendere i prossi­mi giorni estremamente nervo­si. Per come è stata formulata fi­nora, la legge sul «processo bre­ve » semina perplessità trasver­sali. Il pericolo che vengano pre­scritti molti processi è reale, al di là della guerra di percentuali fra Anm e governo.

Il timore di palazzo Chigi è che le proposte di mediazione arrivate sia da Pier Ferdinando Casini, sia dallo stesso presi­dente della Camera, Fini, rischino di intrappolare il premier; di costringerlo ad una trattativa logorante. «Mi metto a ride­re quando leggo che penserei ad un complotto», si è difeso ieri Fini a Milano. Presentando il suo libro nella sede del Cor­riere , ha rifiutato i panni di «eretico» del Pdl, rivendicando il diritto a chiedere equilibrio fra rafforzamento di governo e Parlamento. Poi ha aggiunto che non sarebbe andato ad Ar­core. «Ceno con le mie figlie», ha glissato sull’incontro Berlu­sconi- Bossi-Tremonti, confermando un asse che lo esclude.

Il fatto che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, abbia su­bito accolto l’idea finiana di discutere la durata dei processi ripartendo da una vecchia proposta di Luciano Violante, non cancellerà la diffidenza degli alleati. Anzi, sembra destinato a farla lievitare. L’insistenza della Lega sulla necessità di go­vernare e di completare le riforme lascia capire che non ci sono alternative rispetto a quella di andare avanti; e di trova­re una qualche via d’uscita per le vicende processuali del pre­sidente del Consiglio. Ma più passano i giorni, più cresce la consapevolezza delle difficoltà. Problemi oggettivi, legati al­la complessità della materia e all’impopolarità che una legge incostituzionale potrebbe rappresentare per il governo. Ma anche ostacoli strumentali, seminati da chi indovina una si­tuazione confusa; e in fondo vuole che rimanga tale.

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