I paradossi della maggioranza e il logoramento quotidiano

Il governo e la legislatura vivono sul filo di un bizzarro paradosso. Da un lato si annunciano, non senza enfasi, tre anni di riforme. Addirittura «condivise», secondo le parole di Berlusconi il 25 aprile. E Bossi, che l’altro giorno aveva confessato la sua delusione alla «Padania», descrivendo la fine delle alleanze e il fallimento del federalismo, si è corretto in fretta: ieri anche lui prometteva un triennio riformatore e cancellava l’ipotesi di elezioni anticipate.
A sua volta il presidente della Camera, il reprobo di questa fase, insiste nel garantire lealtà al governo, pur ribadendo il proprio diritto al dissenso su alcuni punti: i problemi ci sono, ma nulla che non si possa risolvere con un «sereno confronto». Anche lui, naturalmente, è favorevole alle riforme, quelle istituzionali non meno di quelle economiche.
A questo punto si potrebbe immaginare che la legislatura sia avviata sul giusto binario e che la maggioranza, al netto di qualche dissidio interno, abbia intenzione di fare sul serio. Invece - ecco il paradosso - il centrodestra riesce a farsi battere alla Camera su un emendamento dell’opposizione relativo alla riforma forense. Si dirà che non è nulla di irreparabile, un episodio minore.
Eppure ha ragione il capogruppo del Pdl, Cicchitto: è un tipico caso di «sciatteria». Nessuna dietrologia, non c’entra il malessere dei finiani. Solo sciatteria, appunto. Il che è persino più grave. In ultima analisi, nel momento in cui prefigura un programma eccezionalmente ambizioso, l’asse Berlusconi-Bossi dovrebbe mettere in mostra la propria tensione costruttiva, la volontà di evitare qualsiasi passo falso. Una maggioranza che crede in se stessa e nel lavoro dei prossimi tre anni, per di più desiderosa di coinvolgere il centrosinistra, non può essere così distratta in Parlamento. Per certi aspetti, sarebbe stato meglio che l’incidente di ieri fosse figlio del dissenso dei finiani, anziché, come in effetti è, il prodotto di una banale casualità.
Ma qui è tutto il paradosso che rende poco credibili le promesse e i proclami delle ultime ore. C’è un distacco troppo grande tra le buone intenzioni annunciate e la realtà di un piccolo cabotaggio parlamentare esposto a ogni raffica di vento. C’è anche dell’altro, s’intende. Ad esempio, il caso Bocchino. Una questione aggrovigliata, forse anche poco interessante. Ma se il Pdl accettasse le dimissioni del vicecapogruppo finiano a Montecitorio, l’impressione sarebbe di un dispetto al presidente della Camera. Che peraltro, come ha ribadito ieri sera a «Porta a Porta», non si dimetterà mai dal suo incarico. Continuerà a «occuparsi di politica» in prima persona, con un’offensiva mediatica che in ultima analisi vale molto di più di una corrente con numerosi affiliati. Insomma, i finiani in Parlamento possono essere anche pochi, ma se Fini riesce a tenere alta l’attenzione dei media intorno alle sue tesi avrà evitato in parte l’isolamento in cui Berlusconi si sforza di confinarlo.
Ne deriva un quadro generale di non-rottura e non-accordo. Un quadro in cui l’ottimismo sul futuro della legislatura è un po’ di maniera e serve forse a celare altre intenzioni. Di fatto il rischio è il logoramento. Uno stillicidio quotidiano di cui nessuno è veramente responsabile (come l’emendamento bocciato per sciatteria), ma che alla lunga può essere pericoloso per il governo. In quali forme adesso non si può prevedere. Ma il logoramento è sempre pernicioso.
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