Il pallino in mano al parlamento

Dalla Rassegna stampa

C'è molto di artificioso nei dibattiti agostani sulla crisi politica e i suoi esiti: elezioni subito o nuovo governo? Non è un'alternativa che si possa pretendere di sciogliere leggendola Costituzione. Che cosa preveda la Costituzione è fin troppo chiaro, anche se il fumo gettato su una presunta "Costituzione materiale" che avrebbe sostituito quella scritta (e non è vero) tende a creare confusione. Siamo in un sistema parlamentare. Questo vuol dire che il governo in carica può restare in sella solo fino a quando non sia costretto a dimettersi da un esplicito voto di sfiducia: non basta uno e non bastano nemmeno più eventuali voti contrari delle Camere su sue proposte (lo dice chiaramente l'articolo 94 della Costituzione).
Naturalmente il governo può scegliere di dimettersi anche in assenza di un voto di sfiducia. In questo caso le alternative sono due: o si forma un nuovo governo che sia in grado di ottenere il voto di fiducia da entrambe le Camere, oppure queste devono essere sciolte anticipatamente e si deve procedere a nuove elezioni. C'è molta esagerazione nell'enfasi che da qualche parte si mette sottolineando che la scelta dipende dal capo dello stato. No, non dipende essenzialmente da lui, ma dal parlamento. Se questo può e vuole formare una maggioranza a sostegno di un nuovo governo, lo si farà; se non è in grado o non vuole, non vi è altro da fare se non chiamare gli elettori a eleggere un nuovo parlamento.
Certo il presidente della repubblica non può essere costretto a sciogliere le Camere se si prospetta una maggioranza a sostegno di un nuovo governo. Ma nemmeno può decidere di testa sua se formare o no un nuovo esecutivo. Certo non potrebbe nominare un governo che si sapesse a priori destinato a non avere la fiducia delle Camere (un governo di minoranza, un "governo del presidente", che nel nostro sistema non esiste), nemmeno al solo fine di fargli "gestire" le elezioni. Ma il presidente non può nemmeno essere costretto a sciogliere le Camere se si prospetta come realizzabile un altro governo sorretto da una maggioranza. In definitiva, il capo dello stato non ha nelle sue mani la chiave unica della soluzione: questa dipende da ciò che matura in parlamento.
C'è dunque molto di forzato nella tesi, esposta per esempio da Piero Ostellino sul Corriere della Sera il 23 agosto, secondo cui questo sistema sarebbe una "parodia delle vecchie monarchie" dell'Ottocento, quando il re aveva l'ultima parola. L'ultima parola ce l'ha il parlamento, durante la legislatura, e alla fine, comunque, gli elettori. Né si può enfatizzare il ruolo centrale della sovranità popolare al punto di pretendere che ogni crisi di governo debba automaticamente dar luogo a immediata verifica elettorale. Il presidente del consiglio, nel nostro sistema, non è eletto direttamente dal popolo, e le sue dimissioni rimettono le decisioni nelle mani del parlamento; non è lui che può autonomamente decidere di convocare nuove elezioni, come non è il presidente della repubblica a poterlo fare finché c'è un governo che gode della fiducia della maggioranza. È vero invece che nel sistema inglese è il governo, e in particolare il premier, che decide di convocare nuove elezioni, e infatti lo fa spesso prima che sia scaduta la legislatura, quando ritiene che il momento sia più favorevole per sé e il proprio partito.
Ma questa è una caratteristica che non è affatto da invidiare alla democrazia britannica (non è un caso che nel Regno Unito vi si stia ripensando). Infatti in tal modo si dà al governo in carica un vantaggio competitivo: quello di scegliere, nell'ambito della legislatura, il momento a sé più favorevole per far esprimere gli elettori (e si sa che in politica il tempo conta). D'altra parte, anche da noi, la maggioranza uscente, se resta maggioranza, può sempre provocare lo scioglimento: basta che faccia constare ufficialmente il venir meno della fiducia ed escluda esplicitamente, pur rimanendo maggioranza nelle Camere o anche solo in una di esse, la formazione di un altro governo: con ciò stesso può impedire la formazione di un nuovo esecutivo e costringere allo scioglimento. Fin qui le (sagge) regole del sistema parlamentare, non a caso il sistema più flessibile, in grado di rispondere a condizioni politiche assai diverse fra di loro. Poi ci sono le considerazioni di opportunità politico-costituzionale, che spettano alle forze politiche rappresentate in parlamento. Da questo punto di vista, non vi è dubbio che nell'ipotesi di una maggioranza univoca, formatasi a seguito delle elezioni, e che si dissolva per dissensi interni, la soluzione maestra è quella di nuove elezioni, in cui gli elettori possano esprimersi sulla nuova composizione delle Camere e sulla nuova maggioranza da formare.
Ma nella nostra attuale situazione politica c'è un fantasma che non è facile esorcizzare: quello della legge elettorale sulla cui base si dovrebbe andare al voto, visto che quella attuale, per largo consenso dichiarato, è pessima. Lo è per almeno due principali motivi: perché recide ogni nesso di rappresentatività reale fra elettori ed eletti, rimettendo largamente la scelta di questi agli apparati dei partiti, e perché insegue il mito di una scelta necessaria, su base nazionale, fra due soli schieramenti, attraverso la previsione di un premio di maggioranza allo schieramento più forte in termini relativi, anche se sgradito alla maggioranza del popolo (una sorta di bipolarismo coatto, e non scaturente da una spontanea aggregazione di forze e di consenso su programmi contrapposti). E allora la vera, unica alternativa è questa: andare subito al voto ancora con la legge attuale (e così tenerci le sue maligne conseguenze), o andare al voto con un sistema elettorale più adatto alle caratteristiche del nostro sistema politico?

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