Palestina, che guaio. Ora gli stati sono tre

Dalla Rassegna stampa

Il solito copione: lo sceicco qatariota Hamad bin Khalifa al Thani aveva appena lasciato la Striscia di Gaza, accompagnato dall’elegante consorte Mozah, quando una pioggia di missili, lanciati dalle Brigate al Qassam, il braccio armato di Hamas, si è abbattuta su Israele. La reazione di Gerusalemme non si è fatta attendere: aerei e tank hanno preso di mira alcuni siti della Striscia, uccidendo sei militanti. Poi, ancora una volta, è intervenuta la mediazione egiziana, tanto più efficace da quando al Cairo governano i Fratelli musulmani. Dopo due giorni di confronto è stata stipulata una tregua informale, perché gli egiziani sono riusciti a convincere Hamas a sospendere i lanci. D’altronde, nessuno dei due contendenti ha interesse a scatenare un conflitto. In Israele, dove a gennaio si terranno elezioni anticipate, l’attenzione è tutta sul dossier iraniano, oltre che su tematiche interne, come l’eccessivo livello di disuguaglianza sociale. Nella Striscia la crisi morde più che altrove, soprattutto adesso che i tradizionali canali di finanziamento di Hamas – la Siria e, in seconda battuta, l’Iran – si sono prosciugati.
Se il copione degli scontri lungo la frontiera non muta, il contesto regionale, però, si va evolvendo. La storica visita di al Thani, la prima di un capo di stato nella Striscia, dopo il conflitto intra-palestinese del 2007 e la presa del potere da parte di Hamas, è l’emblema di un mondo in divenire. L’emiro è sbarcato all’aeroporto egiziano di al Arish ed è entrato a Gaza dal valico di Rafah, dopo avere staccato un assegno di due miliardi di dollari per sostenere le esangui casse del Cairo. L’accoglienza è stata trionfale, per due motivi, uno di ordine economico, l’altro di tipo simbolico. Dopo avere scaricato Assad – il leader storico di Hamas, Khaled Meshaal (nella foto con l’emiro), a maggio ha lasciato Damasco proprio in direzione di Doha – il movimento ha bisogno di trovare altre fonti di liquidità. Il Qatar è il candidato ideale, dal momento che il piccolo emirato sta cercando di guidare a proprio vantaggio l’irreversibile processo di cambiamento che investe il mondo arabo, contando sulla forza della propria rendita energetica, petrolio e soprattutto gas.
Doha gioca su più piani, ha buoni rapporti con gli americani, ha sostenuto il regime change a Tripoli ed arma i ribelli siriani, ma ha relazioni con i talebani – che avevano aperto un ufficio a Doha – e sostiene i movimenti islamisti dell’area, Libia compresa. La visita a Gaza, fortemente criticata da Israele, si inquadra in questa dinamica. Lo sceicco ha inaugurato una serie di progetti di ricostruzione, strade e abitazioni in primo luogo, per 250 milioni di dollari, annunciando un impegno ulteriore, fino a un totale di 400 milioni. Le infrastrutture di Gaza sono state fortemente danneggiate dall’operazione “Piombo Fuso”, condotta dall’esercito israeliano tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009. Malgrado il blocco imposto da Gerusalemme alla Striscia, l’inviato qatariota ha assicurato che potranno sbarcare cemento, acciaio e macchinari per l’edilizia.
Il presidente palestinese Abu Mazen ha fatto buon viso a cattivo gioco, ma è logico che il leader dell’Anp non veda di buon occhio un’operazione che rompe – e questo è il fatto simbolico – l’isolamento internazionale di Hamas.
La riconciliazione tra le due fazioni palestinesi non è dietro l’angolo, al Fatah arranca e la dichiarazione di indipendenza si è impantanata nelle sabbie mobili dell’Onu. Un’epoca sembra chiudersi: Abu Mazen appare stanco, Meshaal ha già fatto sapere che non sarà più lui a guidare Hamas. Le trattative sull’organizzazione delle prossime elezioni generali si trascinano da mesi e la crisi economica mette a repentaglio la legittimità del governo della West Bank, guidato da un economista stimato come Salam Fayyad. La questione israelo-palestinese non è stata centrale nella genesi delle primavere arabe, né lo è adesso, nel dibattito elettorale americano.
In questo contesto, la stessa soluzione due popoli/due stati, cardine della diplomazia internazionale degli ultimi anni, pare ingiallirsi. L’ex presidente americano Jimmy Carter ha preso di mira il premier israeliano Netanyahu, accusato di avere accantonato tutti i tentativi di mediazione, perché convinto dell’inutilità delle trattative. Lo spettro paventato da alcuni analisti è la nascita di un “Hamastan” nella Striscia, foraggiato dai paesi del Golfo, perenne spada di Damocle sul futuro di Israele. Altri, come Edy Kaufman, docente dell’Università di Haifa, e Paul Scham, professore dell’Università del Maryland, invitano a valutare soluzioni alternative, lo stato binazionale, sul modello del Belgio e del Canada, o lo stato federale, in cui le prerogative sarebbero divise tra centro e periferia.
Per Danny Danon, invece, attivista, membro del Likud ed autore del saggio The will to prevail, la soluzione c’è ed è quella dei tre stati. Non Israele, Anp e Hamastan, ma Israele, Giordania ed Egitto. Gli arabi di Gaza, nella sua visione, verrebbero ricondotti al Cairo, quelli della West Bank ad Amman. Resta da vedere se l’egiziano Mohamed Morsi e re Abdallah di Giordania sarebbero d’accordo.

 

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