Il palcoscenico delle illusioni americane

Dalla Rassegna stampa

Sullo stato d’animo degli elettori americani la sfida televisiva tra Obama e Romney, che si è svolta lunedì notte in Florida, non deve aver influito più di tanto. Sicuramente molto meno dei due precedenti duelli. E infatti ha avuto l’indice di ascolto più basso dei tre: molti elettori, a questo punto della corsa presidenziale, hanno già deciso per chi votare il 6 novembre e difficilmente potrebbero modificare il loro orientamento sulla base del ragionamento più o meno azzeccato, dell’uno o dell’altro, sulla Siria o sulla Libia. Caso mai, più che il merito delle diverse prese di posizione, possono aver contato qualcosa, a Boca Raton, la qualità della performance e la capacità di risultare credibili e affidabili nelle vesti di commander-in-chief (e, in questo senso, per la maggioranza dei commentatori, tranne che per gli irriducibili fanatici Charles Krautammer e Pat Buchanan, che devono aver visto un altro duello, Obama ha ampiamente surclassato il rivale repubblicano, nei contenuti e negli zinger, le battute a effetto).
Nel complesso, il pubblico americano è oggi marcatamente isolazionista, ripiegato com’è sui problemi “domestici” e – secondo un’indagine della Pew – ben poco incline a sostenere nuovi interventi militari, per esempio in Siria.
D’altra parte, per l’establishment di Washington così come per la maggioranza degli americani, politica estera è ed è sempre stata sinonimo di sicurezza nazionale, sicché l’interesse per gli affari internazionali s’accende davvero quando è in gioco qualcosa di riconducibile alla national security o a eventi con riverberi evidenti nella politica interna, come minacce all’approvvigionamento energetico (di qui la centralità maniacale, anche a Boca Raton, del Medio Oriente) o le vite di cittadini americani, oppure Israele – il paese più citato, 22 volte, dai due contendenti – per il peso elettorale dell’influente comunità ebraica statunitense. Dunque, più che in passato e specie in questa fase finale della competizione presidenziale, l’elettorato resta focalizzato sulla crisi economica e non presta particolare attenzione al resto del mondo, se non forse alla Cina, ma, appunto, perché incombe sinistramente con la sua crescente e dinamica potenza sul destino della produzione manifatturiera americana.
In un periodo di vacche magre come quello attuale, il debate sulla foreign policy è soprattutto un dibattito finalizzato – o comunque così utilizzato dai due contendenti – a portare su il morale degli americani. Si fa finta di credere e di far credere che l’America sia ancora la superpotenza d’un tempo e tra i due contendenti si fa a gara nel dimostrare chi è più in grado di affermare e garantire la leadership nel mondo. Certo, sarebbe molto più autentico un confronto nel quale dovessero emergere anche verità che contrastano pesantemente con questa illusione. Oggi, in molti campi, il posto dell’America nel mondo è tutt’altro che quello del gigante che sovrasta tutti gli altri. Tra i 35 paesi economicamente più forti del mondo, gli Usa sono numero 34, sopra solo la Romania, nella diffusione della child poverty, il fenomeno dei bambini che vivono in povertà. È al ventottesimo posto come percentuale di bambini che frequentano gli asili e al quattordicesimo nel numero di diplomati e laureati tra i 25 e i 34 anni. In quanto a mortalità infantile, la situazione americana è peggiore di quella di altri 48 paesi. L’America vanta il primato per tasso di detenzione: è più alto che in Russia, Cuba, Iran e Cina. È numero uno nella tragedia sociale dell’obesità con cifre dieci volte maggiori che in Giappone. E un americano consuma più energia di qualsiasi altro abitante del pianeta. Il doppio di un tedesco.
Scott Shane snocciolava questi dati in un’originale analisi sul New York Times, lunedì scorso, dedicata appunto a quel che, idealmente, sarebbe giusto aspettarsi da un candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Parole improntate a «schietta onestà». Ma ormai è entrata nei libri di storia e nei manuali della comunicazione il suicidio politico di un presidente che aveva raccontato agli elettori spaesati la sua spietata diagnosi sul «malessere» che pervadeva la società americana, la «crisis of confidence », la crisi di fiducia che pesava sull’America alla fine degli anni Settanta. Il presidente in carica Jimmy Carter, per averne parlato senza remore, fu sconfitto pesantemente da Ronald Reagan che sfoggiava ottimismo e prometteva un risveglio felice all’America dopo il buio pessimista carteriano. Erano, peraltro, i giorni del sequestro di 52 diplomatici dell’ambasciata statunitense a Teheran, una vicenda sulla quale il regista e attore Ben Affleck ha costruito un bel film, Argo, presto anche in Italia, che varrà la pena vedere anche solo per rendersi conto di come la tensione tra l’America e l’Iran abbia già trent’anni di storia alle spalle. Un tema spinoso con cui si sono già cimentati sei presidenti statunitensi.
Il dibattito presidenziale sulla politica internazionale è tutt’altro che rivolto verso il mondo, anche se il mondo lo segue con partecipazione e interesse, è anch’esso un momento autoreferenziale della campagna elettorale. È ridotto a una narrazione idealizzata dell’America, per non affrontare, sul terreno delle relazioni internazionali, con la stessa brutale franchezza che ormai si ha sulla situazione interna, la crisi di una superpotenza. O, se non si vuol parlare di crisi, la ridefinizione del suo ruolo nel mondo attuale.
Ciò nonostante, non sfugge che la retorica della politica assertiva e della leadership mondiale è una crosta sottile. Lo stesso Romney, nell’assillo di non sembrare una riedizione di George W. Bush, ha finito per somigliare, nel dibattito, al presidente democratico, associandosi di fatto a lui nel privilegiare la diplomazia e ogni altra forma di intervento soft rispetto all’uso della forza militare. Da questo punto di vista, almeno finché la crisi galopperà nel vasto territorio americano, difficilmente vedremo in azione il dispositivo militare americano – nelle forme di una vera e propria guerra – anche nel caso sciaguratissimo che il 6 novembre vinca Romney.

 

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