Pace, non resa ai tiranni

Dalla Rassegna stampa

Il dramma libico occupa l'attenzione universale, gli occhi del mondo sono puntati su Tripoli e Bengasi, su località dell'interno desertico illuminate da una impensata notorietà. Il paese è sconvolto, sulla scena si fanno strada soggetti sconosciuti fino a ieri.
 
I seguaci della senussia, le tribù dell'interno, i militari diventano poli di uno scontro di cui non si intravedono però i cervelli pensanti. Come in Tunisia o in Egitto, è evidente la spontaneità di proteste e sollevazioni, l'assenza di una strategia premeditata come di leadership sicure, di classi dirigenti e politiche alternative.
 
Il futuro di questi paesi non ha un volto riconoscibile. E la cosa è preoccupante: sommosse popolari nate da un malcontento diffuso innestatosi sulla spinta dei giovani più flessibili, più attenti alle novità provenienti dall'esterno non sembrano offrire uno sbocco duraturo. Appare persino possibile che le vecchie classi dirigenti, i clan dei tiranni riprendano il sopravvento dietro una mimetizzazione più o meno perfetta. L'Occidente, per paura delle novità e nell'egoistico timore del peggio, si mostra in generale non proprio ostile a una soluzione di questo tipo. I nostri media chiedono la cessazione della guerra civile e la pacificazione nazionale, proiettando una luce sinistra sugli eventi, magari in nome di interessi italiani minacciati dal possibile arrivo di decine, se non centinaia di migliaia di profughi.
 
Nessuno fino ad oggi - o meglio, quasi nessuno - ha auspicato che le rivolte popolari del Nord Africa (e del Medio Oriente) possano instaurare in quei paesi embrioni di sicura democrazia. Si distinguono le diverse situazioni - la Tunisia, l'Egitto, la Libia, magari lo Yemen o Bahrein - non si vuole riconoscere che in realtà è l'intero mondo arabo e islamico che sta provando a cambiare. Gli obiettivi, il traguardo sono ancora confusi, ma è indubbia una ricerca, sia pure confusa, di democrazia. La radicale Emma Bonino ha notato che da nessuna parte le folle in rivolta hanno bruciato le bandiere di Israele e degli Stati Uniti, come avveniva fino a poco tempo fa. Questo è un segnale fortissimo, decisivo. Ebbene, è questa tendenza, questa spinta alla democrazia che occorre prioritariamente difendere e sostenere, da parte dell'Occidente che vuole dirsi democratico. Qualcuno ha rivendicato i meriti dell'ideologia di Bush e dei Neocons, quella dell'esportazione della democrazia al seguito dei carri armati e dei jet Usa. Non siamo d'accordo, la spinta alle rivolte di questi giorni nasce dalle viscere profonde di paesi, di gente che in qualche modo vuole uscire dallo spirito immobilista che ha dettato ad Huntington, agli Usa di Bush le tesi sullo scontro di civiltà. Purtroppo, l'appello sembra essere ignorato, paesi, stati europei spesso compromessi con questo o quel regime antidemocratico tacciono imbarazzati, invocano una pacificazione che significherebbe resa ai tiranni di ieri.
 
I democratici, le forze, i soggetti che vogliono invece far progredire la democrazia, la libertà, la promozione dei diritti umani e civili, devono muoversi. Mai come in questo momento di dura, difficile, lunga e rischiosa transizione si avverte la necessità di una forza, di un soggetto capace di sostenere, aiutare i popoli arabi a porre almeno le prime basi di una democrazia aperta, capace di dialogare con l'occidente, di collaborare con il cuore sano di quei paesi occidentali che stanno invece arrotolandosi in una loro, e gravissima, crisi di valori.

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