"Ora lo so, l'Italia non li abbandonerà"

Dopo centocinquantadue giorni ieri mattina mi sono svegliato e non ho visto più le facce dei miei carcerieri. Ero libero: le piccole straordinarie libertà che sono la vita, non dover chiedere di andare alla toilette, il lusso di potersi lavare, di varcare quella porta chiusa, camminare. Non ricominciare, ancora una volta, la impossibile battaglia contro il tempo che non scorre mai. Libero. Per molti altri, tanti troppi, italiani, francesi, americani, non è stata così: un’altra giornata da ostaggio. Ho avuto nella mia prigionia siriana la fortuna di non essere solo, di poter parlare, cercare la mano di un altro, piangere insieme a lui, inventare i piccoli accorgimenti che servono a non impazzire. Per molti degli altri ostaggi invece è il silenzio, affondare nel pozzo vuoto della solitudine.
In prigionia in Siria ho pensato, con orrore, a quante volte avevo letto le notizie di sequestri frettolosamente, dimenticando subito quelle storie, non curandomi mai se avessero trovato una soluzione. Sì, l’indifferenza complice. Perché il maggiore conforto per un ostaggio è la sicurezza che c’è qualcuno, non solo la propria famiglia, sequestrata come loro e più di loro, che non li dimentica, che si batte per salvarli. lo sapevo che il mio paese non mi avrebbe dimenticato, che c’era un parte dello Stato, spesso assente spesso inutilmente persecutorio, che questa volta lavorava per non lasciami indietro. Tutti gli ostaggi dovrebbero avere questo diritto a sperare.
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