Ora Silvio teme l'effetto domino sulle inchieste

Berlusconi non ha la minima urgenza di rimpiazzare Scajola. Sul nome del sostituto vorrebbe guardarsi intorno, quello è un ministero troppo strategico per metterci uno dei tanti che sgomitano: e si moltiplicano con il passare delle ore, vero carosello di avvoltoi sopra il palazzo littorio di via Veneto. Dove transita tutto ciò che al Cavaliere maggiormente preme. Le grandi commesse petrolifere? Esatto. I rapporti di affari con gente suscettibile tipo Putin o Gheddafi? Proprio così. E il programma nucleare? Anche, si capisce. La produzione degli armamenti? Come no. Gli incentivi alle imprese? Pane quotidiano. Senza dimenticare che il ministero dello Sviluppo ha nella pancia la competenza sul mercato delle tivù, non c’è bisogno di aggiungere altro.
Avvertono a Palazzo Chigi che i nomi del toto-ministro sono tutti sbagliati, Berlusconi non ne ha preso in
considerazione nessuno di quelli in «pole position». Dalla lista si depenni perciò Romani, che già regge le Telecomunicazioni: lo fa bene, assicurano, e lì resta. Come restano al loro posto Galan e Cicchitto, i quali non si litigano affatto le spoglie di Scajola ma c’è chi vorrebbe promuoverli per rimuoverli, onde accaparrarsi l’Agricoltura (vecchio pallino della Lega) o la poltrona di capogruppo alla Camera (dicono vi ambisca il rampante Lupi).
Altro nome che circola è Possa, un vecchio amico del premier. Pure Cantoni ne avrebbe i titoli professionali. Però in prima battuta Silvio cerca un tecnico esterno, magari un protagonista dell’impresa. Non osa dire Montezemolo ma insomma, l’identikit su cui ragionano nell’entourage è lontano mille miglia dalle mezze figure del teatrino romano. Anche perché il danno alla reputazione è stato tremendo, come se un meteorite avesse centrato il governo. La gente comincia a chiedersi (dicono i sondaggi segreti) chi si è scelto il Cavaliere come ministri, specie quelli del tanto decantato «fare». L’Italia domanda allarmata se è chiara ai berlusconiani la differenza tra l’amministrazione statale e quella di una ditta privata. Servirebbe un nome rassicurante, un colpo d’immagine sul grande pubblico, e al tempo stesso un uomo di totale fiducia. Il premier non ce l’ha sotto mano. Gli serve tempo. Prenderà, anticipano i suoi, qualche attimo di riflessione, forse addirittura il dicastero a interim (lo fece già con gli Esteri quando se ne andò Ruggiero). Meglio se Scajola avesse resistito sulla graticola e non fosse crollato di schianto. Ma ormai è fatta. Segnalano con quale garbo Berlusconi congeda il ministro, tra apprezzamenti «per come ha interpretato il ruolo» e lodi all’«alto senso dello Stato». Un altro avrebbe messo Scajola alla porta. Invece il Cavaliere no, mostrare fretta sarebbe ammettere una colpa, la prova che nel governo c’è chi va licenziato. Parola d’ordine: temporeggiare.
Nel frattempo si fermeranno (spera il premier) le bocce impazzite delle inchieste, voci sempre più tambureggianti di nuovi sviluppi giudiziari destinati a coinvolgere alti papaveri di governo. Dove le dimissioni di Scajola sono viste come anticamera di una resa collettiva ai pm, come quando l’«effetto domino» travolse la Prima Repubblica. Rotondi, per altri esponenti di governo democristiano irriducibile, bolla il gesto di Scajola come un errore e «una concessione alla demagogia» poiché fissa un precedente, pure il prossimo ministro sotto tiro dovrà gettare la spugna (Matteoli non è d’accordo, quello di Scajola è stato «un caso particolare»).
La «velina Rossa» di Laurito, sempre bene informata, annuncia che «lo scandalo G8 potrebbe colpire altri», suggerisce anche una pista che porta a Firenze. Qualcuno parla di Sardegna, altri indicano Milano... Mettiamoci dunque nei panni di Berlusconi. Se sostituisce Scajola oggi, magari poi gli tocca rimetter mano al governo tra qualche giorno, per colpa di altri ministri. Meglio aspettare, vedere che succede, e a quel punto risolvere tutto insieme. Fini permettendo.
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