In onda col "bilancino". La par condicio e i suoi vari ritocchi

Il principio della «par condicio» non è un’esclusiva italiana, anche se in Gran Bretagna i telespettatori ne usufruiranno in una versione più speziata grazie ai confronti diretti tra i leader dei partiti in gara per le elezioni politiche del 6 maggio. Le norme che discendono da quel principio generano da anni allergie nei conduttori televisivi. Di certo, nell’indurre ad assegnare agli ospiti tempi contingentati e con bilancino in certi casi rallentano, e in altri comprimono, gli interventi nelle trasmissioni. I limiti non sono semplici da rispettare. Spesso stridono con il senso comune della ragion televisiva dominante, fatto di sound bytes («morsi di suono», frasi a effetto) e tentativi di scatenare emozioni. Eppure come fu sottoposta a critica la ragion pura, anche quella televisiva non dovrebbe essere esente da rilievi.
Par condicio, espressione latina tradotta di rado, significa che andrebbero garantite pari condizioni di accesso ai mezzi di informazione per le formazioni politiche che partecipano a una competizione elettorale. Il laburista Gordon Brown, il conservatore David Cameron e il liberaldemocratico Nick Clegg non la chiameranno così perché in Gran Bretagna il latino non è di casa, però di questo si tratta quando si assegna al terzo dei tre il diritto di partecipare - con uguali diritti - a dibattiti televisivi con i capi delle due forze fondamentali del bipolarismo britannico. Di questo ci si occupa quando a Londra si stabilisce che le risposte alle domande del conduttore e del pubblico non potranno superare il minuto e che, in ognuno
dei tre dibattiti in calendario, non sarà mai lo stesso politico a prendere la parola per primo. Introdotta nell’ordinamento dal 1995 con un decreto legge dell’allora ministro delle Poste Agostino Gambino, la «par condicio» deve molta della sua cattiva stampa alla causidicità e alla superfetazione normativa italiane. La disciplina ha subito vari ritocchi. Forse un britannico stramazzerebbe al suolo leggendo uno dei derivati, il regolamento che in vista delle regionali di marzo ha impedito per settimane i talk show con risvolti politici. La polpa arriva dopo profluvi di citazioni di altre leggi: per la prima volta nei regolamenti della Commissione parlamentare di vigilanza, le trasmissioni di approfondimento sono state equiparate alle tribune elettorali, soggette a criteri più fiscali.
La maggioranza di governo (tuttavia su proposta di un deputato del Pd, il radicale Marco Beltrandi) lo ha ottenuto sapendo che così poi la Rai avrebbe eliminato gli approfondimenti e che l’autorità garante per le telecomunicazioni, Agcom, avrebbe dettato analoghe norme alle tv private. Sky, fautrice dei faccia a faccia tra leader di prima fila, e Mediaset hanno presentato ricorso al Tar del Lazio. La prima ha chiesto anche una sospensiva e l’ha ottenuta. Un dibattito Berlusconi-Bersani-Di Pietro-Casini, in ogni caso, non c’è stato per indisponibilità del primo, per altro proprietario di tre tv. Di problemi da risolvere ne abbiamo. Ma come abbiamo da imparare dalla sintesi inglese, non tutto da noi va buttato.
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