E oggi Bonino e Pannella decidono la strategia Pd

Dalla Rassegna stampa

Al di là della questione-Tar e della "penultima parola sulla lista Pdl a Roma (l'ultima spetterà al Consiglio di Stato), è stamattina andrà in scena l'Assemblea nazionale dei Radicali. Nove ore secche, dalle dieci alle sette del pomeriggio, in cui tutta la galassia di via di Torre Argentina si riunira «per discutere pubblicamente delle decisioni da assumere, convinti che nessuna scelta in questo momento debba essere data per scontata». Per chi non avesse capito, l'annuncio pubblico si conclude con un «occorre tenere presente il monito di Benedetto Croce: esistono momenti nella storia in cui è necessario che vi sia pur qualcuno per il quale Parigi non valga una messa. Qualcuno c'è: ci siamo».
Il dibattito, per i distratti, è se ritirare o meno le liste dalle prossime regionali. In radicalese «se sia possibile tuttora continuare a giocare con i bari, in una situazione in cui lo Stato non riesce a rispondere ad esigenze che non siano di Regime». Torna in bilico, quindi, la presenza nel Lazio del centrosinistra, raccoltosi dietro il nome di Emma Bonino. Le posizioni nel partito restano quelle descritte nelle settimane scorse Pannella e altri pronti per le «decisioni irrevocabili», Bonino e pochi altri per restare «dentro ma contro» il sistema - ma l'happening di oggi è un fatto puramente teatrale.
Almeno è quello che si può desumere dalle parole dello stesso Marco Pannella nelle tradizionali due ore di conversazione domenicale col direttore di Radio Radicale Massimo Bordin: l'assemblea non ha poteri di deliberazione. Tradotto: non scelgono mica i convocati, i militanti, i radicali noti e ignoti, i matti e quant'altri oggi si avvicenderanno sul palco del Teatro di piazza Santa Chiara. La decisione politica la prendono, al chiuso, i vertici della Lista Bonino-Pannella e, secondo informali sondaggi, la vicepresidente del Senato continuerà la sua campagna elettorale. Visto però che lo spettacolo deve continuare, oggi pomeriggio l'anziano leader dovrebbe tirare fuori dal cilindro l'idea che gli permetta di continuare a terremotare il partito suo e gli altri dellacoalizione - e ovviamente i mass media - senza però uccidere la "sua" candidata.
Come che sia in Lazio e Lombardia più che vere elezioni rischiano di tenersi delle prove generali. ll destino di queste consultazioni è infatti appeso ad una tale quantità di variabili che nessuno
sa ancora come andrà a finire. Ad esempio, dopo il voto la Consulta - a cui ieri si sono rivolte le regioni Lazio, Piemonte e Toscana mentre altre stanno valutando il da farsi - dovrà decidere se il decreto interpretativo (per molti, però, innovativo) partorito dai giuristi del Pdl sulla base dei paletti del Quirinale viola o meno la Costituzione, se metta cioè illecitamente le mani in una materia che la Carta assegna proprio alle Regioni. Se così fosse, le elezioni del 28 e 29 marzo sarebbero destinate ad essere ricordate a lungo come caso giuridico, almeno quanto sarebbero irrilevanti i loro risultati. Senza contare che restano in campo ancora i ricorsi già presentati: ad esempio Roberto Formigoni del PdL contro Filippo Penati del Pd, che a sua volta ha annunciato opposizione alla decisione del Tar che ha riammesso il listino del candidato di centrodestra.
Lo scenario è preoccupante: nei partiti lo sanno, solo che nessuno può fare niente, a parte fare finta di niente o minimizzare. Prendiamo il ministro dell'Interno Roberto Maroni, che ieri ha sostenuto - nell'ordine - che «non ci sono gli estremi per il ricorso del Lazio alla Corte Costituzionale» e che «l'Italia è un Paese in cui ricorsi e controricorsi non si negano a nessuno. Speriamo solo che tutta questa situazione di incertezzafinisca nel più breve tempo possibile per evitare di rinviare le elezioni». Con relativa - involontaria? - pressione sui giudici amministrativi. Tramortito, intanto, resta il Partito democratico. Ieri, a via del Nazareno, s`è tenuta una riunione tecnica di coalizione sulla manifestazione di sabato contro il decreto salvaliste: i bersaniani vogliono evitare che la piazza gli sfugga di mano e il raduno diventi una sorta di pubblico processo al capo dello Stato. I rapporti tra il partito e Giorgio Napolitano infatti volgono al brutto - per la prima volta dall'elezione del capo dello Stato - almeno da venerdì scorso. Le prime avvisaglie dell'irritazione del presidente s'erano avute già giovedì, quando ad una domanda sulla "soluzione politica" - a cui in quelle ore lavoravano Massimo D'Alema e Gianni Letta - aveva risposto secco: «Almeno prima spiegatemi cos'è». Venerdì pomeriggio, poi, Napolitano ha comunicato ai vertici democrats di aver deciso di firmare il decreto e che lo avrebbe fatto appena il testo fosse arrivato al Quirinale e non dopo la decisione del Tar di Milano (che, sabato in giornata, ha riammesso il listino di Formigoni) come aveva stabilito di fare prima. Data a quelle ore una telefonata dai toni poco amichevoli tra il presidente e un'importante dirigente del Pd, che rappresenta il momento di maggiore tensione del fine settimana per il capo dello Stato. Ora Pierluigi Bersani sta cercando il modo di attaccare il governo senza coinvolgere Napolitano, ma fonti qualificate parlano di un presidente sempre più arrabbiato, specialmente per i ricorsi alla Consulta targati Pd.

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