Articolo di Fulvio Cammarano pubblicato su Il Corriere Adriatico, il 26/04/10
Forse è vero quello che sostiene lo scrittore Milan Kundera: si cerca di conquistare il futuro per occupare il passato. Solo controllando il passato si riesce davvero a detenere stabilmente il potere. In questo senso, dunque, le polemiche di questi giorni sull’indifferenza del Governo per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia unitamente a quelle, peraltro da tempo regolari ogni 25 aprile, per le contestazioni del valore e del significato della Resistenza, non sono semplici fatti di una cronaca minore o temi da pagina culturale. Al contrario, confermano come lo scontro politico sia sempre strettamente congiunto ai meccanismi e alla volontà di controllo della memoria storica. In fondo, la narrazione di una certa immagine aulica del Risorgimento, raccontato come impresa concorde di tutte le forze in campo, da quelle mazziniane alle sabaude, era coerente con l’idea dello stato-nazione centralizzato e solidale emerso dalle rovine della Seconda Guerra mondiale. Così come, all’inizio degli anni ’60 del XX secolo, il centro-sinistra ha potuto vedere politicamente la luce solo quando si è imposta una narrazione della Resistenza funzionale alla legittimazione storica (ma, ovviamente, non politica) del Pci e all’isolamento della destra missina. L’immagine di una Resistenza di massa al fascismo ha rappresentato la base su cui radicare l’egemonia del “popolarismo” sia nella versione social-comunista sia in quella democristiana. Quelle prospettive di un Risorgimento e di una Resistenza a senso unico hanno ricevuto, nel corso degli anni, notevoli scossoni dalla ricerca storica e alcune di queste nuove prospettive storiografiche sono entrate a far parte integrante di un discorso politico “revisionista”, impegnato a trasformare gli assetti costituzionali esistenti.
Ovviamente, anche la pretesa di volersi fare portatori di una nuova verità, così come emerge da alcune interpretazioni anti-unitarie e da alcune vulgate del revisionismo antiresistenziale, sembra limitarsi a far risaltare alcuni aspetti del discorso storico a danno di altri. Se il Risorgimento è descritto solo come opera del ”colonialismo” piemontese, a danno di un pacifico meridione e di un ben amministrato Stato pontificio, mentre la Resistenza viene presentata come l’azione di militanti filo-sovietici che operavano per imporre il bolscevismo, continueremo ad avere non pochi problemi come nazione. La giusta lamentela di chi criticava le “narrazioni” a senso unico, tipiche della “Prima repubblica”, mostra il suo vero volto: non si trattava dell’esigenza di abbandonare i lidi di una storia troppo politicamente orientata, ma solo la vorace necessità d’imporre una diversa verità di parte, essenziale per imporre una nuova egemonia politica. Un’impresa tuttavia non agevole, come ha dimostrato anche il recente strappo del Presidente della Camera. Il “revisionismo” che interessa alcuni settori della maggioranza non coincide con quello di altri settori del centro-destra. Come celebrare il 25 aprile? Come ricordare i 150 anni dall’unificazione? Su questi temi ci sono diverse sensibilità, sfumature e magari opportunismi che, non a caso, coincidono con possibili linee di tensione all’interno della coalizione di governo.
Tuttavia, appare decisamente grave la situazione di un Paese privo anche solo della speranza di potersi prima o poi ritrovare unito attorno ad una memoria nazionale almeno parzialmente condivisa. Tra il tentativo di ridurre tale distanza e la manifesta volontà di portare avanti interpretazioni e storie volutamente e dichiaratamente separate, con il chiaro obiettivo di mantenerle tali, ce ne corre. Ed è la distanza che passa tra un Paese ancora interessato ad avere un’idea di sé e del proprio ruolo nel mondo e un Paese bloccato in attesa di cadere in frantumi.
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