Occhiuti con Israele, ciechi su Cuba

Alla fine, tardivamente, obtorto collo, la Federazione internazionale dei giornalisti ha riammesso gli oltre 600 colleghi israeliani discriminati nel giugno scorso con il futile pretesto di una storia di quote non pagate. C’è voluto un po’ di tempo perché la nostra Federazione nazionale della stampa sconfessasse un atto di prepotenza purtroppo condiviso dal rappresentante italiano Paolo Serventi Longhi, ma dopo qualche mese, finalmente, è stata sanata una ferita. La scelta ideologica di unirsi alla campagna contro Israele da parte dell’organismo che riunisce i giornalisti di tutto il mondo è stata sconfitta. Finalmente una notizia buona sul fronte della libertà di stampa nel mondo. Finalmente l’abitudine di mettere al bando la democrazia israeliana, di boicottarla, di isolarla in un fronte comune che paradossalmente include nazioni in cui non esiste la minima libertà d’espressione, ha conosciuto uno smacco. Finalmente
La storia, però, non finisce qui. Resta l’amara constatazione che l’ipersensibilità per ogni minima manchevolezza di Israele (che non ne immune, come tutte le democrazie imperfette che conosciamo) è complementare a una totale assenza di sensibilità per le ripetute e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali di Paesi, a cominciare dall’Iran, che imbavagliano la stampa, mettono in galera i giornalisti, esercitano un controllo assoluto sulle notizie che potrebbero scuotere l’opinione pubblica. Resta la certezza di un doppio standard, frammisto di ipocrisia e di puro e semplice servilismo, che accende la protesta nei sistemi in cui chi protesta per fortuna non rischia la libertà e la vita, e spegne ogni flebile mormorio quando si ha a che fare con dittature che sanno come trattare brutalmente il dissenso e la critica più elementare. Ipocrisia, o anche cecità ideologica. È di questi giorni la notizia che una coraggiosa blogger anticastrista, Yoani Sanchez, è stata sequestrata assieme ad alcuni suoi amici all’Avana e malmenata da una squadra di agenti in borghese con la missione di terrorizzare le attività «controrivoluzionarie». Nel maggio scorso, invitata dalla Fiera del libro di Torino, la Sanchez non ha potuto lasciare Cuba e ha parlato con gli interlocutori torinesi solo attraverso il suo oramai celebre blog. Anche in quel caso, non risulta che ci siano stati proteste, appelli, petizioni, mobilitazioni. Forse perché impegnata a perfezionare le pratiche burocratiche per espellere i giornalisti israeliani, anche la Federazione internazionale non attuò clamorosi gesti di protesta. La sorte della Sanchez non è considerata meritevole di grande attenzione, evidentemente. Che un gruppo di energumeni la porti in galera per picchiare chi ha osato contraddire la politica di Fidel Castro non sembra motivo sufficiente per allarmarsi sui destini della libertà di stampa nel mondo. Del resto, Cuba non è Israele. Perché mai doversene occupare?
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