Obama è «on the road»

In America le bambole delle star sono spesso considerare un indicatore del successo e della celebrità dei personaggi che raffigurano. Il loro prezzo la dice lunga su quanto questo o quella figura pubblica sia sulla cresta dell’onda o in fase calante.
Sotto Natale la bambola di Michelle Obama veniva venduta a 130 dollari, quella di Sarah Palin a 36, quella di Hillary Clinton a 29.95. Il bambolotto di Barack Obama, alto 15 centimetri e con 8 diverse posizioni, può essere comprato on-line per 6 dollari. Per incoraggiare le vendite i produttori promettono di versare un dollaro alla campagna di Obama per ogni bambola venduta.
Il secondo anno del primo presidente nero alla Casa Bianca finisce con una svendita, ma sarà il 2011 a decidere il vero valore di Obama... e della sua bambola. Il presidente dovrebbe tenersi cari i pochi giorni di vacanza che si è concesso alle Hawaii con la famiglia perché difficilmente nell’anno che verrà potrà permettersi di prendere fiato. Il 2011 è l’anno in cui Obama si gioca la rielezione. Il 3 gennaio 2011 si inaugura il 112° Congresso degli Stati Uniti, quello uscito dalle elezioni di mid-term dello scorso novembre e da quel momento il presidente sarà un’anatra zoppa, avendo perso la maggioranza alla Camera e mantenuto di misura quella al Senato.
Per Obama comincia una fase nuova e difficile. I repubblicani entrano nell’anno delle loro, primarie, quelle che dovranno decidere lo sfidante per le presidenziali del 2012. Per il Gop in sostanza la campagna elettorale inizia subito, i riflettori saranno puntati su di loro, l’agenda conservatrice in tutte le varie sfumature - sarà al centro del dibattito pubblico: Il primo, incontro tra i concorrenti è già fissato per la primavera alla Fondazione Ronald Reagan. Sara Palin sarà la star dei comizi - e delle televisioni e sulla sua scia cominceranno a brillare i vari Mitt Romney, Tim Pawlenty, Mike Huckabee, Marco Rubio l’Obama ispanico - o Bobby Jindal figlio dell’India - solo per citare i più famosi e promettenti. I candidati gireranno il paese in lungo e in largo dando il via da subito alla macchina del fund raising e della comunicazione politica.
Obama sarà richiuso a Washington schiacciato dalla fatica di governare un paese che ancora non da cenni ripresa. Gli storici segnalano che nessun presidente, dopo Franklin D. Roosevelt, ha vinto una rielezione con un tasso di disoccupazione superiore all’8 per cento. A ottobre il tasso era del 9.6 e le previsioni del Fondo Monetario per il prossimo anno parlano di un 10 per cento. Pochi ricordano che George W.Bush lasciò la Casa Bianca con un tasso di disoccupazione al 6.5. Non solo, Obama esce da due anni di governo a dir poco catastrofici e ampiamente puniti dagli elettori di mezzo termine. Gran parte della sua «narrativa» elettorale è naufragata in breve tempo: non si è vista la soluzione dei problemi dell’immigrazione, del riscaldamento globale e delle nuove fonti di energia; Guantanamo non è chiusa e ancora piena di prigionieri, non c’è stato il cambio di passo con il mondo islamico e l’America è ancora «rossa e blu», divisa come Obama l’aveva trovata e aveva promesso di cambiarla.
Quello che è peggio, in due anni, Obama ha frantumato il blocco elettorale che lo aveva portato alla Casa Bianca, perdendo per strada i liberal, i conservatori democratici, i giovani, i professionisti, gli indipendenti. L’unico gruppo che gli è rimasto fedele con percentuali plebiscitarie è quello degli afroamericani, cosa che gli permette di blindare la sua candidatura contro ogni tentazione di primarie democratiche, ma non certo di garantirsi la rielezione. Obama è certamente consapevole delle molte difficoltà e dal suo staff, già trapela la strategia per contrastare questa fase di declino. Valery Jarret, uno dei top adviser di Obama ha raccontato a "Meet the Press" che nel 2011 il presidente intende viaggiare di più per l’America, recuperare la presa sulla gente e che quello di cui ha più sofferto in questi due anni è stato passare ogni ora del suo tempo a Washington, con il rischio di perdere il contatto con il paese e di essere raffigurato proprio come uno di quei burocrati inamovibili che erano stati il suo bersaglio in campagna elettorale. Insomma il 2011 di Obama sarà «on the road» come scrive Politico.com.
In questo senso sembra che Obama si stia convincendo ad una mossa insolita e rischiosa: aprire il comitato per la rielezione nella sua Chicago piuttosto che a Washington. Sarà un modo per tenere separate le asprezze della campagna elet-torale e del contrasto dei repubblicani sul territorio con la necessità del compromesso e del dialogo con i repubblicani al Congresso. Obama non può arrivare alle presidenziali con il budget fuori controllo, il fisco non riformato e la disoccupazione a due cifre e per evitarlo ha bisogno di una mano dal Gop, anche a costo di pagare prezzi molto alti come nel caso dell’accordo sui tagli fiscali dell’era Bush.
A parte l’intricata questione afghana e il compimento del ritiro dall’Iraq, non ci sarà molto spazio per la politica estera nel 2011 di Obama. Figuriamoci per l’Europa o per l’Italia. L’unico dossier targato Roma che potrebbe arrivare sulla scrivania dello studio ovale è quello per la sostituzione dell’ambasciatore David Thorne, indebolito dalle rivelazioni di Wikileaks. E se Obama sentirà parlare di italiani nel prossimo anno è più probabile che si tratti di Chris Christie, l’esplosivo italo americano governatore del New jersey e una delle possibili sorprese tra gli sfidanti repubblicani, piuttosto che di Silvio Berlusconi.
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