Obama abbraccia Suu Kyi “Per noi sei stata un esempio”

Quando entrai in carica, mandai un messaggio a tutti i regimi che governavano con la paura: vi tenderemo la mano, se sarete disposti ad allentare il vostro pugno. Oggi sono venuto a mantenere la promessa, e tendervi la mano dell’amicizia».
Il senso della storica visita che il presidente Obama ha compiuto ieri in Birmania, e subito dopo in Cambogia, sta in queste parole pronunciate all’Università di Yangon, tra ali di folla che lo hanno accolto. «Da qui - ha aggiunto - voglio inviare un messaggio a tutta l’Asia: non dobbiamo essere definiti dalle prigioni del passato. Abbiamo bisogno di guardare al futuro. Alla leadership della Corea del Nord ho offerto una scelta: abbandonate le armi nucleari e prendete il sentiero del progresso e della pace. Se lo farete, troverete la mano tesa degli Stati Uniti».
La missione in Asia è la prima dopo la rielezione, e per certi versi vuole essere il manifesto politico del secondo mandato. Obama si è rivolto alla Birmania, per elogiare la scelta riformista e avvertire che il percorso è solo iniziato, ma anche al resto del mondo, rilanciando l’offerta del 2009 a collaborare con le dittature disposte a cambiare passo. Così ha parlato ai paesi satelliti della Cina, che cominciano a soffrire l’eccessiva influenza di Pechino e guardano ad Occidente per bilanciarla; ha parlato alla Corea del Nord, mostrando i vantaggi di seguire il modello Birmano; ha parlato alla stessa Cina, che ha appena rinnovato la leadership; e ha parlato anche ai regimi delle altre zone calde del mondo, dal Medio Oriente, all’Africa, all’America Latina, che nei prossimi quattro anni saranno chiamati a fare scelte storiche per il loro destino. Washington è pronta ad aiutarli, se opteranno per la responsabilità.
Obama, affiancato da Hillary Clinton all’ultima missione con lui, ha indicato un percorso per la democrazia basato sulle quattro libertà di Roosevelt: parola, culto, dal bisogno e dalla paura. La Birmania si è incamminata lungo questa strada, e nonostante i dubbi di Aung San Suu Kyi, il presidente ha visitato il Paese per incoraggiarlo a proseguire le riforme e additarlo come esempio. Thein Sein ha deciso la svolta anche perché era preoccupato per l’eccessiva influenza della Cina: in molti villaggi ormai si parla mandarino, e le aziende della Repubblica Popolare sono molto aggressive nella caccia alle risorse naturali. Il regime voleva bilanciare questa influenza aprendo all’Occidente, e Washington non poteva perdere l’occasione. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri paesi asiatici che cercano un argine all’espansionismo di Pechino. Incontrando Thein Sein, poi, il capo della Casa Bianca ha elogiato anche la decisione di cooperare con l’Aiea contro la proliferazione nucleare, cancellando i sospetti di collaborare con Pyongyang sul programma atomico.
Nello stesso tempo, però, Obama ha chiarito che questa nuova relazione va fondata sulla condivisione di democrazia e diritti umani, rispondendo così alle preoccupazioni sulla sua visita che aveva espresso Aung San Suu Kyi, quando aveva detto: «Il momento più difficile di una transizione è quando si pensa che il successo sia a portata di mano: bisogna stare attenti a non farsi ingannare dal miraggio del successo».
Obama ha ottenuto da Thein Sein la promessa di rivedere lo status degli oltre 200 prigionieri politici ancora detenuti, consentire l’accesso delle organizzazioni internazionali alle carceri, e fermare le violenze contro le minoranze etniche e religiose. Poi, nel giardino della villa dove la «Signora» era detenuta, ha detto che il consolidamento della democrazia passa attraverso la costruzione di «istituzioni governative credibili e stato di diritto». Parlava in codice, perché questi sono i punti centrali del programma con cui Aung San Suu Kyi conta di vincere le elezioni del 2015 e diventare il nuovo presidente. Nella speranza che nel frattempo altri regimi accettino la mano tesa di Obama.
© 2012 La Stampa. Tutti i diritti riservati
SU