Nuova laicità?

Dalla Rassegna stampa

Lo avevo messo da parte, riprendo ora in mano un ritaglio del Riformista del 29 settembre scorso. Titolo: "Io, cattolico e cardinale, vi dico che c’è bisogno di una nuova laicità". Non farò il nome dell’eminente prelato - non mi piace personalizzare - ma la sua perentoria affermazione non mi convince proprio, ahimè. Peraltro, non è affatto nuova, da qualche anno la sentiamo ripetuta un po’ ossessivamente, soprattutto in quei dibattiti dove l’eminente prelato di turno e il noto professore laico si scambiano cioccolatini e prosecchini a non finire per il piacere di una platea adorante. Per la verità questa moda è da un po’ di tempo in calo, ma evocarne i problemi e le aporie è forse un buon deterrente a evitare che riprenda l’aire. I due che si confrontano convengono sempre, inevitabilmente, su una sola, pressante o suadente, richiesta: "C’è bisogno di una nuova laicità", una laicità non aggressiva, non intollerante, che non ricalchi le orme del deprecato laicismo ottocentesco, accomodante verso le esigenze della religiosità o, più precisamente, della chiesa. Infine, tale nuova laicità dovrebbe rinunciare a sbandierare, o almeno rivedere a fondo, quelle dichiarazioni dei diritti universali che della (vecchia?) laicità sono da sempre il fiore all’occhiello. Secondo alcuni critici di parte ecclesiale, tali documenti si appellano a una universalità che ormai si è consumata fino a divenire "astratta". Perché? Perché fa leva su "un modello antropologico ideale", che non tiene conto dei condizionamenti storici e viene pertanto contestata da tradizioni che le giudicano e condannano come meramente "di parte". Quale sarebbe allora il rimedio, la cura correttiva da iniettare in quegli antiquati e inutili testi? Semplice: dovrebbero aprirsi e accogliere il contributo delle esperienze religiose, le quali costringono invece a pensare a valori nuovi, finalmente e realmente universali in quanto"concreti", in quanto tengono conto, insomma, di "specifiche manifestazioni culturali" nate sulla reale vita degli uomini e di comunità particolari. Io ribadisco la mia opposizione: le dichiarazioni dei diritti sono universali solo in quanto, appunto, "astratte", in quanto cioè non tengono conto delle differenze culturali. E’ ovvio che siano un portato della "civiltà" o della cultura occidentale, ma nessuno finora è insorto a rivendicare una diversa tavola di diritti universali scaturente dall’esperienza storica di un’altra cultura.
Non c’è apologetica senza dissenso Eppoi: mai che in quei dibattiti si rivolti la frittata anche dall’altro lato; mai che si levi una voce a dire: "Ma non sarebbe almeno ugualmente necessaria una nuova religiosità?" Niente, mai che il discorso prenda questa piega, ovvia dal punto di vista della semplice correttezza dialettica, del fair play. Ne manca l’occasione, l’urgenza, l’esigenza? Niente affatto: perché invece, sotto sotto, cominciano a filtrare da ogni parte voci, sia pure misuratissime e un po’ flebili, che la richiesta di una nuova religiosità la pongono eccome: e provengono anche dall’interno della chiesa. Lasciamo pure stare le inchieste sociologiche, che unanimemente ci descrivono il mondo dei fedeli attraversato da pulsioni, valori, indirizzi che si pongono al di fuori se non apertamente contro l’insegnamento della chiesa. Tempo fa, apparve nelle librerie un volume dal titolo "Lo scisma". L’autore, Riccardo Chiaberge, compie una inchiesta, un viaggio ideale attraverso un panorama di "eremiti cistercensi, suore missionarie, preti di periferia, teologi scomunicati", ma anche di "imprenditori in tonaca, medici pellegrini a Lourdes, ricercatori e ricercatrici sulle frontiere della scienza, storici, filosofi, intellettuali e semplici fedeli". Ne escono toccanti ritratti di "cristiani senza potere che lottano in solitudine, lontano dai sacri palazzi, per affermare i loro valori nell’impegno quotidiano... trovandosi spesso in conflitto con la Dottrina...". A una prima lettura pensai che il titolo, nella sua efficacia sintetica, fosse la dilatazione di una realtà assai modesta, marginale, silenziosa per ovvia incapacità a volare alto, più che per costrizione. Forse comincio a ricredermi. E mi fanno ricredere in primo luogo i molti (moltissimi) autorevoli interventi di timbro ortodosso che hanno l’indefinibile ma riconoscibile profumo dell’apologetica. Ora, se vi è apologetica vi è dissenso, polemica, rischio, forse anche sensazione di accerchiamento. I laici, di certi "interna corporis" non dovrebbero impicciarsi: l’obiezione sembra ovvia, ma a me pare superficiale e sbagliata, mossa dal presupposto che laico significhi "non credente". Penso invece che la questione della religiosità interessi anche il laico: credo infatti che il laico sia, o possa essere, un credente. Secondo alcuni, con bella dizione, credente in "altro", altro almeno da certe manifestazioni che accompagnano frequentemente le rivendicazioni della chiesa, o del suo apparato clericale e (posso dirlo?) di potere.

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