Articolo di Fulvio Cammarano pubblicato su Corriere adriatico, il 12/04/10
Poche cose ottenebrano la ragione e il raziocinio come il tifo. Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova in occasione delle recenti rivelazioni sulle intercettazioni telefoniche non trascritte nel 2006, quando scoppiò lo scandalo che travolse Moggi e l’intera dirigenza juventina. Alcune delle “nuove” intercettazioni riguardano colloqui avvenuti tra dirigenti dell’Inter e i responsabili del settore arbitrale. La questione su cui vale la pena soffermarsi, tuttavia, non è quella delle responsabilità di questo o quel gruppo dirigente calcistico, su cui farà chiarezza la giustizia sportiva e poi quella penale, ma del modo di procedere di intellettuali e commentatori appena entra in gioco la passione sportiva. Solitamente disincantati ed estimatori del metodo empirico quando scrivono sui mille temi della vita politica e sociale del Paese, nel momento in cui si tocca la squadra del cuore si trasformano in ciechi talebani. Non nutrono dubbi: sanno la verità!
Mentre ideologie e visioni politiche perdono i pezzi spingendo gli intellettuali a riscoprire il valore dell’accertamento dei fatti, il tifo non conosce crisi nel suo procedere manicheo. Fior fiore di commentatori di fede juventina, ad esempio, non appena si è diffusa la notizia delle nuove intercettazioni, si sono lanciati a testa bassa nel cercare di ridurre il peso delle responsabilità di Moggi mentre i loro colleghi interisti si sono arrampicati sugli specchi nel negare che abbiano valore e nel giurare che Moratti è innocente. Ovviamente questo è del tutto possibile e persino plausibile ma, se non si vuole scendere a livello di fanatismi religiosi, forse sarebbe opportuno utilizzare un altro metodo ed un altro linguaggio. Quale? Quello di chi non può mettere la mano sul fuoco in quanto, non avendo vissuto 24 ore al giorno con Moratti o altri dirigenti, non dovrebbe, a rigor di logica, sapere con chi hanno parlato o che cosa hanno detto e fatto questi signori. Tutto qui.
La civiltà giuridica non contempla l’ipotesi che uno sia innocente perché interista o perché si chiama Moratti. Mentre nessuno chiede al tifoso di utilizzare l’arma della critica e l’arte dell’understatement, si pretenderebbe da chi ha un ruolo nella formazione dell’opinione pubblica l’utilizzo della cautela come metodo, il che non significa non prendere posizione ma di prenderla sulla base di conoscenze e non di sentimenti o di passioni attraverso cui cercare di convincere gli altri su ciò che è vero e ciò che è falso. Da sempre l’umanità ama il ruolo del capro espiatorio, del colpevole unico che assolve tutti gli altri protagonisti. Piace, insomma, che qualcuno assorba integralmente le energie negative, liberando tutti gli altri dal peso delle responsabilità parziali e personali. Pensate alle fiabe: c’è sempre e solo un cattivo che alla fine paga le sue colpe permettendo così agli altri di vivere “felici e contenti”. Purtroppo nella vita le cose non stanno quasi mai così. E dire questo non significa affatto, come è stato affermato, perseguire la strategia fumogena del “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Bisogna, invece, laicamente, accettare l’ipotesi poco elettrizzante, in quanto si presta meno al sollievo del chiaro e dello scuro ben distinti, che ci sia il grigio, vale a dire colpevoli, complici, innocenti, in percentuali e distribuzioni variabili di volta in volta. A complicare il quadro va anche detto che la vita quotidiana ci mette spesso di fronte a “cattivi” non colpevoli, colpevoli non “cattivi”, “buoni” seppure complici e via di seguito laddove tutte queste categorie dovrebbero significare qualcosa, in una tollerante civiltà liberale, nella misura in cui hanno rilevanza penale. Il principio della responsabilità individuale deve valere sempre e ovunque, anche negli stadi e nelle chiese, e dunque si rassegnino i tanti analisti che mettono la propria intelligenza al servizio di una passione calcistica: non c’è fede, colore, appartenenza che dia diritto a consegnare la patente dell’innocenza a priori.
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