Non vogliamo fare la fine delle civiltà sepolte

Dalla Rassegna stampa

L'immagine di quella torre con l'orologio spaccato non è solo il documento di un monumento in rovina, ma il simbolo di uno spazio costruito e di un tempo che progredisce infranti.
Il Paese sta andando in rovina e con esso il patrimonio paesaggistico, storico e artistico, particolarmente colpito da quest'ultimo sisma. Il dissesto idro-geologico riguarda i beni culturali, ma è di competenza del ministero dell'Ambiente, mentre il mantenimento di quei beni e la riduzione del rischio sismico riguardano il ministero per i Beni culturali, che dispone però di soli 85 milioni per tutti gli investimenti nel 2012
(escluse le spese per Ales)!

Ho davanti un testo: Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale (Circolare del 26 dicembre 2010), Gangemi Editore, pp. 431.
È rimasto lettera morta. Il segretario generale del minister per i Beni culturali di allora, Roberto Cecchi, ha fatto ottimamente il suo dovere, ma in mancanza di fondi e di sgravi fiscali (si vedano quelli da me proposti giorni fa sul Sole 24 Ore) poco è possibile fare, da parte pubblica e da parte privata. Restaurare quella torre sarà possibile, riutilizzando magari i mattoni in terra, ma costerà molto e si tratterà di una copia, per cui la perdita è irrimediabile, risarcita da moderna apparenza. Se la statica di quella torre fosse stata migliorata con qualche intervento modesto e poco costoso probabilmente essa avrebbe retto al crollo o si sarebbe danneggiata molto meno.

È come se il primato dell'economia nel determinare la storia fosse stato universalmente ereditato per ordine di Karl Marx. Siamo malati di economicismo, non riusciamo più a vedere la società come sistema complesso. Pensiamo soltanto allo sviluppo economico e in modo del tutto inadeguato alla cura della nostra Penisola e degli uomini che ci vivono. Tornare a prima dei tagli, come sovente si invoca, non è possibile. Sarebbe ricadere nella spesa pubblica incontrollata. Si tratta invece di risparmiare enormemente nelle spese della politica, a tutti i livelli, e forse anche delle attività militari(fatti salvi gli obblighi internazionali), e di dirottare una parte rilevante di queste risorse alla cura dei suoli, smettendo di cementificarli, incrementando le coltivazioni tradizionali, fermando il bosco che avanza e riabitando paesi e case coloniche in via di abbandono. E si tratta di mantenere il patrimonio culturale, riducendone il rischio sismico (è quanto si sta tentando di fare per Pompei, grazie a fondi europei, pur con qualche lentezza). Ma l'Aquila è già Pompei e se andiamo avanti in questa direzione, andiamo a una archeologizzazione progressiva della Nazione. Vogliamo far la fine delle civiltà sepolte?

Non siamo contrari a tutti i lavori pubblici, ma nessun lavoro pubblico che si prospetta sembra riguardare i suddetti argomenti. Il problema è che in questa dominanza assoluta di quanto è strettamente economico – vizio mondiale denunciato dalla Nussbaum – natura, patrimonio, istruzione, ricerca patiscono orribilmente, mentre accanto e insieme all'economia dovremmo promuovere un nuovo umanesimo, uno sviluppo umano (mi vengono in mente italiani alla Brunello Cucinelli). Dobbiamo attendere una prossima classe dirigente o possiamo invece discuterne almeno fin da ora?

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