Non c'è solo la Domus Aurea pericolante. Triste tour nelle rovine della Capitale

Immaginate che Goethe, o ChateauIbriand, oppure Stendhal, Gogol, Hawthorne, Gregorovius o Henry James (altri nomi ne potrete fare anche voi) ripetano oggi una di quelle passeggiate per Roma che hanno immortalato nelle loro "Promenades dans Rome" o "Italian Hours". Li potete vedere, no?, mentre camminano lentamente col naso all’insù, tra via Sistina (una delle strade più belle del mondo, bisognerà scriverne, una volta), via del Corso e il Colosseo, tutti presi da sconfinata ammirazione per i ruderi solenni, i palazzi maestosi. Ma, attenzione, potreste anche vederli d’improvviso precipitare entro una voragine, un buco, una fossa apertasi tra le antiche pietre. Possibilissimo. E allora vogliamo usarla la frase fatta, rifugio del mediocre scrittore? Per una volta usiamola, e diciamo che il crollo della volta di una galleria delle terme di Traiano, nell’atrio della Domus Aurea neroniana, era un evento annunciato.
La sanno tutti: non solo il complesso architettonico sepolto sotto il Colle Oppio e in gran parte coperto da terra, erbacce e radici, ma un bel po’ dei monumenti fortunosamente pervenutici dalla Roma antica è a rischio. Il Palatino e il Colosseo, le Mura Aureliane e i solenni archi degli acquedotti si sfaldano, laterizi, pietre, capitelli, arconi, pilastri e colonne si sbriciolano, al limite del collasso definitivo.
Quando cominciò la dissennata corsa al disseppellimento di inutili ruderi nell’area dei Fori, l’allora sindaco Rutelli esclamò, compiaciuto: "Questo sarà il nostro Louvre". Pensava all’appeal turistico di quella che è la più grande area archeologica del mondo, e non mancò un’occasione per farsi fotografare, assieme ai suoi assessori alla cultura, in ammirazione dinanzi ad ogni minimo ritrovamento che potesse confermare il suo auspicio. Ma forse al Louvre non lasciano crollare i soffitti o ammuffire le tele, a Roma sì. A quanto pare, l’unico intervento annunciato dalle autorità capitoline e di governo dopo il crollo della galleria traianea è la messa in sicurezza delle strutture, vedi che altrimenti ci rimetta la pelle un barbone, un extracomunitario di quelli che sul Colle Oppio fanno bivacco.
Non si parla invece di procedere negli scavi, o della riorganizzazione dell’intera area per renderla sicura ma anche fruibile, alla scienza prima che al turista giapponese. Pare che l’odierno disastro fosse
prevedibile fin da trenta anni fa, quando le risorse messe a disposizione con la legge per Roma Capitale vennero destinate prioritariamente al restauro dei grandi monumenti in pietra. Nemmeno l’archistar degli archeologi romani, Carandini, sembra voglia spendere un po’ della sua indiscussa autorità per sollecitare un maggiore impegno di governo e comune. Basta che gli infelici ruderi possano fare da sfondo ai fasulli legionari e centurioni in corazza, elmo e schinieri di princisbecco, accanto ai quali si fanno fotografare i turisti mordi e fuggi.
Ma non c’è bisogno di piangere per la rovina dei grandi monumenti, anche quelli più piccoli, meno noti ma non meno importanti, sono in uno stato indecente. Ne daremo qui di seguito tre esempi. Il primo è la fontana del Tritone di piazza Barberini. E’ famosissima opera di Gian Lorenzo Bernini, commissionatagli da Papa Urbano VIII. La descrizione che ce ne dà la Guida Rossa di Roma è perfetta: si tratta "di un’abile fusione di elementi naturalistici e antropomorfi: da una vasca molto bassa, che conferisce maggior risalto all’insieme, quattro delfini con le api barberiniane (la famiglia dette nome alla piazza già nel 1625) sollevano con la coda una conchiglia sulla quale poggia un tritone che manda verso il cielo uno zampillo d’acqua". A parte che lo zampillo non sale al cielo ma cade giù come un rigagnolo, l’intera fontana è ingrommata da una vegetazione di muschi e licheni verdastri, impastati di una morchia fuligginosa o pendenti come stalattiti, che hanno reso irriconoscibile il torso del tritone - evidentemente ispirato al Laocoonte vaticano - così come ogni altro particolare del monumento. Raramente si vede un capolavoro ridotto in così miserabile stato. Eppure non manca un pietoso turista che ancora ha il coraggio di fotografarlo, memore di qualche immagine di anni, o decenni fa. Magari chiedendosi stupito se quella mitologica figura appartenga per caso a un nero, un africano, visto il suo uniforme colore cinereo.
Sorte non diversa è toccata ad un altro caratteristico monumento della capitale, anch’esso di ispirazione, se non di esecuzione, berniniana. Si tratta dell’elefantino di piazza della Minerva, quello che i romani veraci d’un tempo chiamavano "er purcino", il pulcino, per deformazione del termine "porcino" con cui si identificava l’elefante, animale allora sconosciuto ai più. E’ la raffigurazione di un elefante che sorregge sul groppone un piccolo obelisco. Il monumento ha una storia curiosa e complicata, di cui vale la pena ricordare un esilarante episodio. L’elefantino volge le terga al palazzo dove nel XVII secolo aveva sede l’Inquisizione romana, il Sant’Uffizio presso il quale nel 1633 venne celebrato il processo a Galilei. Fu lo stesso Bernini, cui si deve il progetto poi eseguito nel 1667 da un suo allievo, a suggerire la strana posizione.
Con il posteriore di fronte all’edificio in questione, la sua proboscide ne sottolineava la posizione irriverente e la coda, tutta spostata sulla sinistra, lasciava scoperto l’orifizio anale. L’intento era chiaramente di farsi beffa dei frati domenicani cui apparteneva l’edificio del Sant’Uffizio. Pare che la trovata trovasse consenziente Alessandro VII. Allora i papi erano anche giocosi, e comunque potevano infischiarsene di scomuniche e anatemi. Tal monsignor Sergardi rincarò la dose, dettando un epigramma restato celebre. L’originale è in latino, la traduzione suona così: "L’elefante volge le terga e grida con la proboscide rivolta all’indietro: ‘Fratelli del Kirie, io vi ho qui". Roba da ispezione del ministero degli Interni o della Giustizia, ai tempi nostri. Ma la vendetta clericale ha trovato altre strade per colpire l’osceno elefantino. Il suo bel travertino è striato di uno scolaticcio brunastro e denso, una poltiglia che si addensa nei punti dove la pioggia non può arrivare, mentre lascia scoperte le parti battute dalle acque e magari dal vento. L’effetto è disgustoso, sembra ditrovarsi di fronte ad una latrina sulla quale non si siano fatte pulizie da un decennio. Certamente non lo vide così Simón Bolivar quando alloggiò nell’albergo lì di fronte, come attesta una trascuratissima lapide.
Spostiamoci ora nel ghetto, il quartiere ebraico istituito da Paolo V nel 1555. Quasi all’inizio di via del Portico d’Ottavia c’è la facciata della casa che tal Lorenzo Manili si fece costruire nel 1468. E’ solo una facciata, probabilmente per ragioni finanziarie il proprietario non riuscì a completare l’edificio, ma è un episodio architettonico davvero eccezionale. All’altezza del primo piano corre un fascione di travertino decorato da un inserto epigrafico di grandissima eleganza, una iscrizione in latino dai caratteri in capitale maiuscola di perfetto stile classico. Tradotta, suona così: "Mentre Roma rinasce all’antico splendore, Lorenzo Manili, in segno di amore verso la sua città, costruì dalle fondamenta sulla piazza Giudea, in proporzione con le sue modeste possibilità, questa casa che dal suo cognome prende l’appellativo di Manliana, per sé e per i suoi discendenti, nell’anno 2221 dalla fondazione di Roma, all’età di 50 anni, tre mesi e due giorni; fondò la casa il giorno undicesimo prima delle calende dì agosto". Bello, vero? Conosco poche altre testimonianze così sentite della passione rinascimentale per l’antichità. Sulle architravi delle porte dell’edificio si legge poi, ripetuto quattro volte - tre in latino, una in greco - il nome del proprietario, mentre sulle finestre è inciso il motto "Nave Roma". Infine, il basamento è cosparso di reperti archeologici, tra cui il frammento di un sarcofago antico con un bellissimo leone, un cerbiatto e altri animali finemente scolpiti. Ebbene, questo autentico tesoro è ormai completamente smangiato, incrostato, divorato da una lebbra di bolle rossastre o cinerine che lo rendono illeggibile e perfino un po’ ripugnante. Possibile che nessuno si sia accorto di questo scempio? Magari, qualcuno dei residenti ebrei, certamente innamorati e gelosi del luogo, delle testimonianze che contiene e che costituiscono una attrattiva unica per visitatori minimamente colti e intelligenti?
Tre esempi minimi ma, credo, significativi di un degrado infinito. Ci se ne rende conto se per una volta ci si diletta di fare una passeggiata per Roma a naso in su, come gli Stendhal, gli Chateaubriand, i Keats, i Mommsen d’un tempo.
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