I Nobel e le tentazioni della Cina: potenza fragile ma aggressiva

Dalla Rassegna stampa

Grande dev’essere stato lo smacco per il governo cinese nel vedere attribuire il Premio Nobel ai cittadini sbagliati. Il primo cinese sbagliato fu Gao Xingjian, drammaturgo, artista e romanziere in contrasto con il governo di Pechino, insignito della massima onorificenza per la letteratura nel 2000, mentre viveva in esilio a Parigi. L’ultimo è Liu Xiaobo, critico letterario e analista politico, che quest’anno ha ricevuto il Premio Nobel per la pace mentre sconta una condanna in carcere per «attività sovversive» contro il regime comunista. Liu Xiaobo aveva invocato il rispetto dei diritti umani e l’avvio di una democrazia multipartitica in Cina. E poiché il Dalai Lama non è cittadino cinese lascerò da parte il suo Nobel per la pace, anche se è stato proprio questo il premio che ha causato maggiore irritazione e imbarazzo ai leader cinesi. Tuttavia la reazione del governo cinese al Premio Nobel di Liu non può che definirsi sconcertante: anziché manifestare un’altezzosa indifferenza o rifugiarsi nel silenzio ufficiale, stavolta i dirigenti cinesi hanno scatenato un putiferio colossale, scagliando accuse furibonde di congiure contro la Cina, minacciando la Norvegia di rappresaglie economiche e mettendo agli arresti domiciliari decine di celebri intellettuali cinesi, compresa la moglie di Liu, Liu Xia. Di conseguenza il nostro Liu Xiaobo, rinchiuso in carcere e finora del tutto ignoto ai più, non solo è diventato una celebrità mondiale, ma si è fatto conoscere anche in Cina. Se a questo si aggiunge il comportamento aggressivo della Cina nei confronti del Giappone e il rifiuto di rivalutare lo yuan ci si chiede davvero come mai questo Paese stia dando prova di tanta insofferenza nei suoi rapporti con l’estero. L’atteggiamento inspiegabilmente aggressivo manifestato dalla Cina negli ultimi tempi non può non impensierire i suoi vicini. Come dimostra la calda accoglienza riservata a Hillary Clinton nella recente visita in Asia - persino nel Vietnam comunista - nel Sud-est asiatico si preferisce restare aggrappati ancora per un po’ alla pax americana, per timore della Cina. Altri Paesi asiatici potrebbero persino avvicinarsi al Giappone, unica alternativa agli Stati Uniti come contrappeso al Regno di Mezzo. Non può essere questo l’obiettivo di Pechino. E allora come si spiega l’arroganza cinese? È  lecito supporre che il Paese si senta alquanto inebriato dall’aver raggiunto la nuova posizione di grande potenza. Per la prima volta, da due secoli a questa parte, la Cina è in grado di farsi ascoltare dal resto del mondo ed è pronta a fare quello che vuole, senza badare alle reazioni degli altri Paesi. Ma non basta questo a spiegare il comportamento cinese. Anzi, la ragione potrebbe celarsi nel motivo opposto, e cioè che la dirigenza cinese comincia ad avvertire qualche scricchiolio al suo interno. Dal 1989 in poi sicuramente la legittimità del monopolio del potere, detenuto dal Partito comunista cinese, si è fatta via via più fragile. L’ideologia comunista si è ormai esaurita. Il modo più rapido per riconquistare il sostegno della nascente classe media cinese è stata la promessa di un grande e rapido balzo verso la ricchezza economica, grazie a una crescita vertiginosa. Il vuoto ideologico lasciato dalla morte dell’ortodossia marxista è stato riempito dal nazionalismo. E il nazionalismo in Cina, propagato attraverso la scuola, i mezzi di comunicazione, i monumenti e i musei «patriottici» significa una cosa sola: che soltanto la guida incrollabile del Partito comunista cinese impedirà agli stranieri, specie gli occidentali e i giapponesi, di sottomettere nuovamente la Cina. Pertanto chiunque, persino un intellettuale quasi sconosciuto come Liu Xiaobo, si permetta di sfidare la legittimità dell’egemonia del Partito comunista invocando elezioni multipartitiche, dev’essere stritolato e messo a tacere. E per questo che il governo non osa rivalutare lo yuan troppo in fretta, per timore che rallenti la crescita economica, mettendo in imbarazzo il partito ed esponendo a contestazioni la sua legittimità. Alzare la voce con il Giappone è sempre un’ottima soluzione: il governo cinese non odia il Giappone, ma teme di apparire debole agli occhi dei suoi cittadini, che apprendono sin dall’asilo che le potenze straniere puntano a schiacciare la Cina. Ciò fa pensare che se mai Liu Xiaobo e altri dissidenti come lui riuscissero a realizzare il loro sogno e la democrazia sbarcasse in Cina, il problema del nazionalismo cinese non scomparirebbe automaticamente. Dopo tutto, se si sente accerchiato dal Giappone o dagli Stati Uniti, il popolo cinese invocherà una politica aggressiva. Parimenti, la democrazia non ha attenuato i sentimenti nazionalistici in Corea del Sud, dal rovesciamento della dittatura militare negli anni Ottanta. Ma se il nazionalismo non è necessariamente una costante in politica, non di rado esso è scatenato da una sensazione di impotenza: allorché i cittadini si sentono scavalcati e oppressi da un governo autoritario, non resta loro altro che l’orgoglio di patria. In una democrazia multipartitica, d’altro  canto, i cittadini si occupano di ben altri interessi, in campo economico, sociale e culturale, e non avvertono la tentazione delle rivendicazioni nazionalistiche. O così si spera. Le condizioni in cui versano molti Paesi occidentali al giorno d’oggi non sono certo la migliore pubblicità per la democrazia liberale, ma i cinesi dovrebbero avere anche loro il diritto di decidere da soli. E onore a Liu Xiaobo per aver affermato questa verità.

© 2010 Corriere della Sera. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK