No al finanziamento pubblico delle chiese

Dalla Rassegna stampa

L'affaire Ici su cui si sono soffermate in questi mesi le attenzioni dei media non è altro che la punta di un iceberg che si chiama revisione del sistema di finanziamento pubblico delle confessioni religiose.

È oramai tempo, infatti, che le chiese, al pari dei partiti, si finanzino esclusivamente con le donazioni dei privati anziché tramite la fiscalità generale.

La storia dell'esenzione dal pagamento dell'imposta sugli immobili utilizzati dagli enti ecclesiastici (e dal no profit) , per attività commerciali, introdotta dal Governo Berlusconi nel 2005 e conservata dal governo Prodi nel 2006.1a dice lunga sull'Italia di questi anni.

Quando nel 1992 viene introdotta l'Ici, una categoria di potenziali contribuenti si autoassolvono dal pagarla contando sulla complicità di molti Comuni e sulla lentezza della giustizia, sapendo anche che semmai un giudice gli desse alla fine torto (accade nel 2004 con la sentenza della Corte di Cassazione) ci sarà di certo un governo (Berlusconi nel 2005) che ribalterà la sentenza con una legge e quello successivo (Prodi nel 2006) che manterrà l'esenzione con una formula normativa che crea una zona grigia dove tutto è possibile.

Vista dal lato della politica, ad opporsi in Parlamento furono i soli parlamentari della Rosa nel pugno, con i Radicali, negli anni successivi, unici a tenere i fari accesi grazie alla denuncia alla Commissione europea seguita da Maurizio Turco e Carlo Pontesilli. Arriva poi la crisi finanziaria, lo scandalo irrompe nell'opinione pubblica, diventa caso internazionale e il governo Monti si trova costretto ad annunciare modifiche per evitare condanne della Ue (la quale aveva già tentato una gestione politica del dossier archiviando inizialmente la denuncia). Vista la mala parata, i destinatari del privilegio e le forze politiche che lo avevano introdotto se ne dissociano, come se fossero vissuti su Marte. La speranza evidentemente è che tutto finisca qui. Invece dovrebbe essere l'inizio di una valutazione complessiva dell'impatto che le leggi italiane, il Concordato e il Trattato lateranense hanno avuto sulla nostra Repubblica e sulla stessa libertà religiosa. L'Italia, tra i diversi modi con cui atteggiarsi nei confronti dei bisogni religiosi dei cittadini, ha scelto di sottrarre alla fiscalità generale una considerevole somma di denaro pubblico per finanziarne la soddisfazione. E ha individuato nelle confessioni religiose i soggetti istituzionalmente preposti alla soddisfazione di tali esigenze attraverso finanziamenti diretti. Stesso modello applicato per i partiti e la politica.

Questa impostazione ha determinato un'involuzione autoritaria e burocratica del momento religioso e la contestuale clericalizzazione dello Stato.

Il denaro dei contribuenti arriva nelle casse delle chiese sotto fortma di percentuale delle imposte sul reddito, di donazioni per cui è prevista la detrazione, di esenzioni fiscali alle attività degli enti religiosi, di sovvenzioni per le scuole e gli ospedali cattolici, di contributi per singoli eventi, di assunzione in capo alla amministrazione pubblica del costo di funzioni esercitate da personale della Chiesa cattolica. Prima del Concordato del 1984 lo Stato erogava direttamente il reddito al clero attraverso il meccanismo della congrua. Oggi, al contrario, assegna annualmente l'otto per mille delle imposte sul reddito degli italiani alla Conferenza Episcopale Italiana, alla quale è riconosciuta la piena e autonoma gestione di tali fondi, pari a 1 miliardo di euro l'anno.

In pratica, l'accesso del clero e delle comunità di fedeli di cui le parrocchie sono espressione - alle risorse economiche è gestito direttamente dalla Cei.

Anche quando il finanziamento prende la forma di erogazione di uno stipendio per funzioni connesse alle attività confessionali (insegnanti di religione, cappellani, assistenza religiosa a malati e detenuti), l'accesso a tali "professioni" è controllato gerarchicamente dalla Cei attraverso il meccanismo della designazione e del giudizio di gradimento.

Il primo effetto del nuovo Concordato è stato quindi quello di determinare una svolta autoritaria all'interno della stessa Chiesa cattolica, con il riconoscimento di tutto il potere in mano alle gerarchie e in particolare della Cei, titolare unica dei rapporti con lo Stato attraverso il meccanismo delle Commissioni paritetiche.

Un secondo effetto corruttore è stato quello di innescare una rincorsa delle altre organizzazioni religiose al conseguimento di quei privilegi economici e giuridici garantiti dal modello realizzato per la Chiesa cattolica. Molte chiese cristiane delle Riforma (valdesi, pentecostali, battisti) hanno a lungo rifiutato finanziamenti diretti in coerenza con la loro teologia prima di capitolare di fronte allo strapotere assicurato dal modello statuale.

Al tempo stesso, l'enorme potere economico assicurato alla Cei e alle altre diramazioni del Vaticano in Italia ha indotto un progressivo cedimento clericale delle istituzioni, estendendo a dismisura i finanziamenti pubblici ed i privilegi che le permettono di esercitare una significativa influenza in settori fondamentali quali la scuola, la sanità, il turismo, l'immobiliare. E di conseguenza sulle scelte generali della classe politica, con posizioni altrimenti impensabili sui temi dei diritti civili e della bioetica.

Per tutte queste ragioni, si impone una revisione del sistema di finanziamento delle confessioni religiose e il superamento di tutte quelle prerogative e privilegi che fanno del Concordato e del Trattato gli strumenti ideali per impedire l'affermazione in Italia della libertà religiosa. In ogni caso, non è pensabile mantenere inalterato un meccanismo, quello dell'otto per mille, che si è rivelato assolutamente illiberale, iniquo ed eccessivamente costoso per i contribuenti.

Il sistema inventato da Tremonti, infatti, non consente libertà di scelta in quanto costringe ogni cittadino a finanziare le confessioni religiose indipendentemente dalla propria volontà, spesso addirittura a sua insaputa (quasi il 60% dei contribuenti non esprime alcuna scelta ritenendo erroneamente che il suo otto per mille rimarrà allo Stato).

La somma sottratta al bilancio dello Stato, poi, supera il miliardo di euro l'anno, essendo cresciuta in maniera abnorme: dai 200 milioni di euro che la Cei incassava nel 1990 all'attuale miliardo. Di fronte a una quintuplicazione del gettito, la stessa legge istitutiva dell'otto per mille dispone che si proceda a una riduzione dell'aliquota, affidandone la prima valutazione a una commissione bilaterale istituita presso la Presidenza del Consiglio. Sebbene le relazioni di questa commissione siano da anni scandalosamente sottratte a qualsiasi forma di conoscenza, è di tutta evidenza che la cifra di 1 miliardo di euro sia incompatibile con l'attuale situazione economica del Paese, oltre che con quanto previsto dalla legge.

A questo punto il presidente Monti ha di fronte due possibilità per ridurre l'aliquota e restituire libertà di scelta ai contribuenti: chiedere (e ottenere) la disponibilità del Vaticano ad una revisione concordata del sistema oppure avviare in via unilaterale la procedura prevista dalla legge, iniziando con il dimezzare l' otto per mille.
*Segretario dei Radicali italiani

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