Niente election day L'opposizione attacca: sprecati 300 milioni

Amministrative e referendum, si vota in giorni diversi e molto distanti tra loro. Da metà maggio a metà giugno gli elettori saranno chiamati quasi ogni settimana a recarsi alle urne: si comincia con il 15 del mese dedicato alla Madonna, con le amministrative che riguardano 1.310 comuni tra i quali città del calibro di Milano, Bologna, Torino, Napoli, Trieste, Ravenna, Cagliari, Salerno; breve pausa, quindi il 29 e 30 maggio si torna ai seggi per i ballottaggi. Non si finisce di analizzare il voto e di insediare i nuovi sindaci, ed ecco la proposta a sorpresa del governo: per i referendum si voti il 12 di giugno, ultimissimo giorno utile visto che la legge ne prevede il voto in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno. Niente election day, dunque, nonostante da tempo governi vari, maggioranze e minoranze del momento abbiano fatto del risparmio di risorse legate all'esercizio del voto una costante nonché un punto dirimente. «In questo modo si sprecano 300 milioni», accusano tutte le opposizioni, dal Pd all'Udc passando per Idv, «ora Maroni e il governo lo vadano a spiegare ai loro elettori che buttano dalla finestra milioni di euro per fare un piacere a Berlusconi», il commento di Pier Luigi Bersani leader del Pd. Perché un regalo al premier? Il riferimento è a uno dei tre quesiti, quello sul legittimo impedimento, per il quale migliaia di cittadini sono andati a firmare contro; gli altri due quesiti riguardano il nucleare e l'acqua. «Una decisione incomprensibile, specie in tempi di crisi come questa, è chiaro che il governo vuole boicottare i referendum facendoli votare a scuole chiuse e sperando che la gente vada al mare», la bacchettata di Renzo Lusetti a nome dell'Udc. «I 300 milioni che si sprecano potrebbero essere invece dati ai disoccupati», la proposta di Oliviero Diliberto della Federazione della sinistra. «Vengano dati ai poveri», chiede Sergio D'Antoni del Pd. Il ministro dell'Interno ha già fissato e firmato il decreto per la data delle amministrative, quello del referendum ancora no, ma l'accorpamento non è previsto, «si punta al 12 giugno e io sono d'accordo, la prassi è sempre stata di dividere le due consultazioni», le dichiarazioni a caldo di Bobo Maroni. Che in verità, come scrive la Velina rossa, un qualche precedente cui appigliarsi ce l'ha: nel 1997, ministro dell'Interno Giorgio Napolitano e a palazzo Chigi Romano Prodi, il governo di allora non concesse l'election day alla messe di quesiti dei radicali che spaziavano dalla carriera dei magistrati alle liberalizzazioni, all'abolizione dell'ordine dei giornalisti, si votò il 15 giugno e nessuno ottenne il quorum. «Forse Maroni vuol fare carriera», il commento agrodolce della Velina.
È stata la giornata del Bersani all'attacco. Convocati i giornalisti in vista dell'8 marzo, il leader democrat si è prodotto in una doppia sfida a Berlusconi: il governo «non è più credibile» e non ha più la fiducia degli italiani, l'unico modo di uscire da questa morta gora è andare alle urne. «Il premier vuole forzare le regole senza avere neanche il consenso», rincara Bersani. Il leader del Pd, e siamo alla seconda sfida, ha poi annunciato di avere raggiunto i dieci milioni di firme per la campagna "Berlusconi dimettiti", e l'8 marzo ne verranno depositate «alcune milionate» davanti palazzo Chigi.
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