Nell'Italia di oggi non c'è più spazio per i liberali che fecero l'Italia di ieri

La crisi del marxismo che ha segnato sul piano teorico la fine dello stato sovietico e delle democrazie reali satelliti ha riportato alla luce un segmento della cultura politica del Dopoguerra relegato, anche presso l'opinione pubblica, nella marginalità: parlo della cultura di stampo liberale, oltreché dello stesso partito liberale, il Pli: per un po' si è persino vagheggiata la possibilità di dar vita a un partito liberale finalmente "di massa", fondato su rinnovate basi, liberiste e globalizzate, e capace di spazzare via i due imponenti pilastri culturali che hanno connotato il Dopoguerra, il marxismo e il cattolicesimo politico. L'ipotesi si è rivelata impraticabile: di partito liberale di massa non si sente più parlare, certi sbandierati neoliberalismi indebitamente accaparrati da forze - di destra come di sinistra - in cerca di legittimazione hanno già mostrato la loro inaffidabilità, di presenze liberali se ne vedono in giro poche, e quelle poche hanno scarsa o nulla influenza politica.
Nuove ampie ricerche, stimolate dalla contingenza e aperte da alcuni convegni tenutisi in prestigiose sedi accademiche tra il 2004 e il 2007, hanno tuttavia restituito spessore alle vicende del liberalismo italiano contemporaneo. Le ricerche sono confluite, fino a oggi, in due ponderosi volumi di quasi duemila pagine complessive, curati da studiosi di lunga esperienza, Fabio Grassi Orsini e Gerardo Nicolosi per il primo, Giampietro Berti, Eugenio Capozzi e Piero Craveri per il secondo: "I liberali italiani dall'antifascismo alla Repubblica" (Rubbettino, 36 euro ciascuno). I saggi approfondiscono figure già note ma gettano anche opportuni fasci di luce su altre, poco o nulla conosciute, rielaborando così la storia del Dopoguerra se non proprio attorno a una centralità liberale almeno su un canovaccio tra i cui fili trovano onorevole, forte e adeguato significato personalità sicuramente importanti, e non solo nel perimetro della "galassia" liberale. Perché di galassia sembra si debba parlare (come puntualizza l'introduzione al secondo volume) quando si assemblano assieme figure di diversa origine e di diverso destino, che possono uscire sia dalle file del Partito d'azione o del Partito repubblicano come anche dell'“Uomo qualunque” o della pattuglia monarchica, se non addirittura da un calderone di vicende etichettabili come variamente "moderate": insomma tutto un arcipelago di liberali "anomali", ricondotti sotto un'unica etichetta (mi si passi il termine). Così, in questo secondo volume, si tratteggia l'interessante biografia di un altrimenti poco noto Giulio Alessio, il ministro di Grazia e Giustizia del governo Facta che chiese, alla prima riunione del gabinetto, "la proclamazione dello stato d'assedio nelle città dove maggiori erano state le violenze fasciste", accanto a quella di Francesco Saverio Nitti, di Francesco Ruffini, di Luigi Salvatorelli o di Carlo Sforza, Gaetano Martino e Alberto Tarchiani, grandi e operosi nel gettare le linee maestre della politica estera italiana postbellica. In una seconda parte viene esplorata la presenza liberale nel mezzogiorno d'Italia, una presenza importante pur sotto vesti variate, dal Partito d'azione al demolaburista; un quadro composito nel quale vengono isolate le figure di Benedetto Croce o di Alfredo Parente, di Guido Cortese, Epicarmo Corbino, Raffaele De Caro, Giovanni Cassandro o Francesco Cocco Ortu. Il volume si conclude sul tema del rapporto tra politica e cultura in Francesco Compagna, Rosario Romeo, Adolfo Omodeo, Guido de Ruggero.
I saggi, nella loro indubbia utilità storico-politica e storiografica, tentano, con giustificata e comprensibile passione, di avallare l'ipotesi, o almeno la speranza, di stabilire una continuità almeno ideale tra il passato e il presente se non addirittura il futuro. È una ipotesi destinata, temo, a dissolversi. Le vicende tratteggiate in queste pagine hanno, come denominatore comune, il riferimento a un quadro istituzionale preciso, quello dell'Italia stato-nazione nato dalla epopea, sicuramente liberale, del Risorgimento, destinato però a un ineluttabile declino nell'età della decadenza degli stati nazione: quando addirittura la Francia o l'Inghilterra, culle di quel modello statuale, scadono da potenze mondiali a piccole entità vanamente ambiziose ma prive di rilevanza geopolitica. Le riflessioni o l'azione europeista di alcuni tra questi liberali non scalfiscono la nostra critica, in quanto essi - ci riferiamo ovviamente ai Rosario Romeo, Francesco Compagna, Renato Giordano, sui quali giustamente si sofferma il volume - restano isolati, pur nella grande influenza che seppero esercitare sui contemporanei o anche dopo. E un nuovo pensiero liberale dovrà necessariamente tener conto della globalizzazione e mondializzazione delle istituzioni, rifondando i propri valori sui nuovi parametri e obiettivi.
Le personalità ricordate in questi saggi hanno giocato una parte di rilievo, spesso anche fondamentale (si pensi solo a Einaudi), nelle vicende culturali e politiche postbelliche. Non sono riuscite, però, a dare o ridare vita a un soggetto politico autonomo, venendo assorbite in parte nella sfera di influenza del moderatismo cattolico, in parte nella trama togliattiana di acquisizioni utili a legittimare l'ambizione del Pci di rappresentare la modernità "laica" del paese (e questo percorso sarebbe degno di una particolare ricerca). In pochi restarono indipendenti, ma senza eredità politica. I due volumi rappresentano comunque una documentazione assolutamente indispensabile, e non solo sul piano storiografico.
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