Napolitano e la dignità della politica

Per la seconda volta nel volgere di un mese, o poco più, Giorgio Napolitano è tornato a tessere le lodi della Prima Repubblica. 0 almeno così la vede chi non è d`accordo con lui. Agli inizi di ottobre il capo dello Stato non aveva nascosto un certo qual rimpianto per la lotta politica negli anni Cinquanta e Sessanta, quando certo «non si facevano complimenti», ma, pur contrastandosi aspramente, ci si rispettava. Domenica, a Napoli, ricordando Maurizio Valenzi, ha voluto rivalutare addirittura la figura del politico di professione, quello che faceva della politica, come recita il titolo di un bellissimo libro di Giorgio Amendola, «una scelta di vita». Una figura che, sin dai tempi di Tangentopoli e dintorni, sembrava dover essere condannata alla damnatio memoriae; e che tuttora non viene certo ricordata, nell`opinione pubblica, con particolari nostalgie. «Politico di professione», nel giudizio (o nel pregiudizio) dei più, è, nel migliore dei casi, uno che non ha mai veramente faticato in vita sua, una specie di parassita responsabile di una quantità di malattie sociali, a cominciare naturalmente dalla corruzione; e di cui si può tranquillamente fare a meno, consegnandolo al passato proprio come i vecchi partiti che per lui erano casa, chiesa, scuola e famiglia. E invece? Invece Napolitano riconosce che si tratta, forse, di «una specie in via di estinzione»; ma aggiunge che e bene «difenderla da giudizi sommari e grossolani». Sul piano storico, naturalmente, perché la vicenda dei politici di professione fa tutt`uno con quella dei partiti nella democrazia repubblicana; e nemmeno il degenerare del sistema dei partiti (la cosiddetta «partitocrazia») che ha «immeschinito» la loro figura, riducendoli spesso al rango di «semplici agenti di calcoli e giuochi di potere», autorizza a cancellare i valori positivi originari dell`esperienza di chi a lungo ha vissuto la politica sulla scorta di «un forte senso della missione, spirito di servizio e di sacrificio al di là di ogni legittima ambizione personale». Ma anche su un piano più attuale, perché, anche a non voler «idoleggiare nostalgicamente il tempo che fu», resta vero che la politica, in qualsiasi modo e per qualsiasi via vi si giunga, è, come sosteneva Benedetto Croce, «un`arte a sé», che richiede di avere, o di acquisire, qualità specifiche, non tollera dilettantismi, e pretende da chi la pratica che ne intenda la nobiltà. In poche parole: oggi come ieri, «quello che più conta è la dedizione all`interesse generale, la moralità della politica». Certo non si tratta di considerazioni inoffensive. Può darsi, anche se a me non pare, che possano risultare inattuali, visto che tutti gli homines rjovi (Silvio Berlusconi, ovviamente, ma anche Umberto Bossi e Antonio Di Pietro) sono di tutt`altra schiatta, e quasi tutto quel che resta della Prima Repubblica e dei suoi politici di professione (per lo più, seconde e terze file) dall`aprile del 2008 se ne sta malinconicamente all`opposizione. E ha le sue ragioni Marcello Veneziani quando, sul Giornale, dopo aver ricordato che fu l`immoralità dei politici di professione a regalarci Tangentopoli,, segnala che su piazza non ci sono più «i De Gasperi, i Togliatti, i Craxi, gli Almirante ma i loro meschini succedanei», strutturalmente impossibilitati a farsi protagonisti di un ritorno della Politica Alta (sic). Tutto vero, o quasi. Ma Veneziani ha molte ragioni di meno quando legge le parole del capo dello Stato come una specie di chiamata a raccolta di quel che resta, a sinistra a destra,e al centro, della politica politicante contro Berlusconi «l`antipolitico». B guaio è che lo scontro politico, chiamiamolo così, si è fatto talmente furibondo che nessuno, neppure il capo dello Stato, può sperare di non essere esposto a dure reprimende e ad accuse di invasione di campo. Neanche quando si limita, come in questo caso, a formulare considerazioni sul senso della politica e sulle qualità dei politici sicuramente (ripetiamo) non inoffensive, e tuttavia d`ordine generale, rivolte cioè a tutte le forze in campo, di maggioranza e di opposizione, e a tutti gli italiani. A tutti i cittadini, cioè, di un Paese che esisteva, e aveva, eccome, una sua storia politica e civile anche prima del `92-94; e che ha, crediamo, anche il diritto di interrogarsi sugli esiti di un quindicennio segnato dall`antipolitica sin dai suoi albori, e di chiedersi se, senza politica e senza politici adeguati, ne possa uscire in avanti.
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