La mossa di Abu Mazen che riconosce la Shoah

Il presidente palestinese Abu Mazen I cercava da tempo l’occasione propizia per correggere definitivamente e con chiarezza la propria opinione sull’Olocausto, e soprattutto sulle sue proporzioni. Nel 2011, in un’intervista, aveva dichiarato, senza particolare enfasi, di non aver mai negato la Shoah, e di accettare che vi fossero stati sei milioni di morti. Tuttavia, che il leader sarebbe giunto a definire l’Olocausto come «il crimine più odioso contro l’umanità avvenuto nell’era moderna», manifestando «simpatia e solidarietà alle famiglie delle vittime innocenti uccise dai nazisti», era ritenuto abbastanza improbabile. Anche chi lo ascoltava, cioè il rabbino americano Marc Schneier, che lo ha incontrato la settimana scorsa, è rimasto folgorato da quella dichiarazione «sentita e di cuore», come ha dichiarato il religioso al New York Times. Schneier, da tempo impegnato nel dialogo tra ebrei e musulmani, non è un sognatore ma un realista che non può certo essere accusato di ingenuità. Il problema ora è uno solo: capire quale sia stata la molla che ha spinto Abu Mazen alla clamorosa dichiarazione. Sì, perché di convinta retromarcia si tratta.
E per un politico sperimentato come il presidente palestinese è difficile immaginare un pentimento improvviso: quasi una folgorazione sulla via di Ramallah. Il retroscena è noto a molti. Quando Abu Mazen era uno studente universitario all’Università di Mosca, dove convergevano, agli albori dell’Olp, tutti i palestinesi a caccia di una laurea prestigiosa, non aveva esitato a presentare una tesi di dottorato su un argomento assai controverso. Sostenne infatti, con il conforto di qualche discutibile ricerca condotta da studiosi negazionisti, che i numeri dell’Olocausto (sei milioni di vittime, appunto) erano stati enormemente gonfiati. Tesi di dottorato ritenuta politicamente «corretta» dalla retorica araba e dai dirigenti sovietici dell’epoca, in odio allo Stato ebraico. Una tesi che Abu Mazen, nel1983, quando il processo di pace doveva ancora cominciare, non aveva esitato a far pubblicare in un libro diffuso in tutta la regione, come la «verità» documentata da un colto studente che aveva fama d’essere un moderato. Più volte, da quando ha accettato l’eredità di Yasser Arafat, l’attuale presidente palestinese ha cercato con prudenza di smarcarsi da quella scivolata: che ha rischiato, negli anni successivi, di appannare la sua immagine di uomo dialogante e di buon senso. Quando Ariel Sharon, il premier israeliano recentemente scomparso, considerava Abu Mazen un partner credibile, era pronto a glissare su quell’episodio imbarazzante, che molti suoi ministri gli ricordavano. Anche recentemente c’è chi, in Israele, ha sostenuto che il presidente dell’Anp «è il leader più antisemita del mondo». Ma adesso Abu Mazen cancella gli «incidenti» del suo passato accademico. Un’abiura per molti versi clamorosa.
La prima spiegazione è evidente. Avendo mandato l’altro giorno nella Striscia di Gaza i suoi emissari per firmare l’accordo che, teoricamente, dovrebbe sancire la fine delle ostilità inter-palestinesi fra i laici del Fatah (guidati appunto da Abu Mazen) e i fondamentalisti di Hamas, il leader vuole dimostrare ad Israele che è lui, e solo lui, a dettare la linea. Hamas non ha mai riconosciuto lo Stato ebraico. Anzi, non nega di volerlo distruggere, e ovviamente non riconosce gli orrori dell’Olocausto. L’obiettivo prioritario del presidente, in questo momento, è quindi di spingere Hamas, che nella Striscia di Gaza non è più il gruppo più estremo dell’integralismo islamico, ad accettare gli accordi sottoscritti dell’Autorità nazionale palestinese, cioè il riconoscimento di Israele e la rinuncia alla violenza. La sua speranza è legata alla volontà di rendere credibile e serio l’accordo raggiunto; e di dimostrare alla controparte israeliana d’aver prodotto una svolta strategica. La reazione non certo positiva, anzi quasi sdegnata del premier Benjamin Netanyahu, dimostra però che l’attuale governo di Israele non crede possano maturare le condizioni per tornare al tavolo del negoziato.
Netanyahu, in sostanza, dice: «Abu Mazen deve scegliere, o noi o Hamas», e pretende il riconoscimento di Israele come «Stato ebraico». Scelta comprensibile, che però i palestinesi, e gli arabi in generale, respingono: anche perché vorrebbe dire la progressiva espulsione dei cittadini arabi israeliani, che rappresentato pur sempre il 20 per cento della popolazione del Paese. Ma, a ben vedere, dietro alla dichiarazione sulla Shoah di Abu Mazen c’è soprattutto la volontà di coinvolgere ancor più la Casa Bianca, impegnata a rianimare un processo di pace agonizzante. Il presidente palestinese, che conta anche sulla prossima visita di papa Francesco in Terra Santa, ci spera. Ben sapendo che l’obiettivo è sempre nelle mani di tre soli protagonisti: Israele e quelle che fino a pochi giorni fa erano due Palestine. Due Palestine contrapposte che, se non cambiano davvero le cose, resteranno tali.
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