Il mondo isola il regime di Assad

Dalla Rassegna stampa

«L'espulsione degli ambasciatori è l'unico segnale che possiamo dare perché in questo momento siamo impotenti», con queste parole il dipartimento di Stato ha concordato con gli europei una decisione da tempo nell'aria. Nel giorno in cui Kofi Annan è tornato a incontrare Bashar Assad, le capitali occidentali - Londra, Roma, Berlino, Parigi, Madrid - si sono allineate ai piani di Washington. A parte il dettaglio, non trascurabile, che gli ambasciatori a Roma e Parigi resteranno sul posto perché accreditati anche alla Fao e all'Unesco.
Le dichiarazioni americane sono un'istantanea piuttosto fedele e disarmante dell'impasse occidentale in Siria. Come uscirne? La "variante yemenita", riproposta da Obama a Putin in questi giorni, non è nuova.
Ma non c'è niente di più inedito dell'edito, diceva il giornalista Mario Missiroli. Il piano risale all'anno scorso: un esilio dorato per Bashar Assad accompagnato da una transizione che avrebbe lasciato al suo posto una parte del vecchio regime. Come Abdullah Saleh in Yemen, Bashar avrebbe dovuto passare la mano al vicepresidente, Faruk al-Shaara. Gli stessi russi in dicembre avevano ospitato Faruk a Mosca per sondare il terreno, senza risultato.
Da allora la situazione è peggiorata. Non si capisce perché i russi dovrebbero mettere alla porta Assad e fare un favore a Obama in campagna elettorale dopo aver capito che la Nato non ha intenzione di muoversi. Le stesse condanne del regime al Consiglio di Sicurezza Onu ripetutamente bloccate - tranne l'ultima – dai veti di Mosca e Pechino sono apparse una vendetta postuma per l'operazione contro Gheddafi piuttosto che dettate dal timore di un intervento occidentale. Americani ed europei non sembrano così vogliosi di avventure belliche dall'esito incerto: o ci siamo già dimenticati di quanto avvenuto nel confinante Iraq e del pantano afghano?
La Siria non è la Libia per mille motivi ma soprattutto perché è al centro del Medio Oriente e di una questione internazionale più vasta della primavera araba.
In gioco c'è il nuovo equilibrio di poteri mondiale. Una questione riguarda i missili strategici e il sistema impiantato in Turchia dalla Nato, diretto non solo contro l'Iran, potenza nucleare virtuale, ma anche verso il Mar Nero. Perché mai i russi dovrebbero liquidare un regime che ospita la sua ultima base navale nel Mediterraneo a Tartous e molto altro senza nulla in cambio? È ovvio che le considerazioni umanitarie non funzionano con Mosca, che ha chiesto un'indagine imparziale sulla strage di Houla dove secondo l'Onu sarebbero entrate in azione con esecuzioni sommarie le milizie lealiste degli "shabiha". Ma anche Pechino vuole una posta convincente perché in Siria aveva piazzato alcuni terminali del suo tentacolare apparato commerciale. I cinesi sono dei pragmatici - hanno appena lasciato decollare negli Stati Uniti un dissidente famoso - ma intendono incidere sugli assetti globali e del Medio Oriente.
Americani ed europei hanno sbagliato all'inizio, lasciando che fosse la Turchia insieme agli arabi del Golfo a imporre una svolta ad Assad.
La Turchia, che in 30 anni non ha risolto i suoi problemi con i curdi, ha sempre avuto una presa limitata sui Paesi confinanti: è in rotta con Baghdad, ha rapporti complessi con l'Iran e si è alienata Israele. Altro che "zero problems" con i vicini, secondo lo slogan del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu. Dov'è la fascia di sicurezza tante volte minacciata al confine siriano con i campi profughi piazzati dai turchi a ridosso della frontiera? E quale è stato il contributo di Ankara che ha sponsorizzato con l'avallo occidentale rappresentanti di un'opposizione velleitaria senza alcuna presa reale in Siria? Se ne sono resi conto anche in Italia ospitando a Roma l'ultima riunione del Consiglio nazionale siriano (Cns): «Persino il Consiglio di Bengasi appariva assai più credibile», è stato il commento ironico di alcuni diplomatici.
L'internazionalizzazione della crisi siriana è avvenuta senza una direzione precisa. E adesso si chiede un miracolo all'inviato dell'Onu e della Lega Araba Kofi Annan, il cui piano è screditato da dichiarazioni quotidiane che lo danno per morto e sepolto. Annan, affermando che il presidente siriano ha condannato la strage di Houla (108 morti di cui 49 bambini), tornando però ad accusare «gruppi terroristi», ha dichiarato ieri in una conferenza stampa a Damasco: «Chiedo a tutti gli Stati influenti di fare pressioni sul Governo siriano e le parti in causa per mettere fine alle violenze, inclusi i continui abusi dei diritti umani».
Un appello quasi disperato quello dell'inviato dell'Onu. Per questo, davanti all'assenza di alternative, la diplomazia si aggrappa alla già defunta "variante yemenita": ma non è con gli slogan che si salva il popolo siriano dal massacro.

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