Minzo, l'uomo che non si fa condizionare dalle notizie

«Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche. Lo esigevano tutti». Giorgio Gaber aveva capito le ragioni più profonde per le quali Augusto Minzolini, negli anni Settanta, per cominciare a fare il giornalista era tra le fila della Fgci prima e del Pci poi. Per entrare a far parte della intellighenzia dell'epoca. Lo stesso motivo per cui, inaugurando una carriera di ruffianeria giornalistica, l'Augusto cronista abbracciò una solida fede craxiana, minacciata a tratti da fasi di andreottiano amore, simili, per assiduità e frequenza, alle alterne vicende della presidenza del consiglio dei ministri. Poi, dopo una breve parentesi drammatica come comparsa in lo sono un autarchico e Ecce Bombo, di Nanni Moretti, il Minzo finisce per dedicarsi anima e corpo proprio a lui, al caimano. Ora sì, davvero, come direttorissimo del Tgl Augusto non è più una semplice comparsa, non è un personaggio secondario nella trama complessiva, ma ha conquistato il ruolo tragicomico di gazzettiere ufficiale del berlusconismo. Primus inter pares, dove i pari hanno le sembianze vampiresche di Sallusti o i modi aggressivi di Feltri, è lui il giornalista del potere politico, la voce ufficiale di Silvio. Tanto da meritarsi un'intera biografia, simile, per contenuti e per tono, all'autopsia della libertà di stampa italiana: Se questo è un giornalista. Ritratto biografico di Augusto Minzolini, gazzettiere del berlusconismo, di Michele De Lucia. E quale spiega con lucidità il contesto in cui si inseriscono i famigerati editoriali del direttorissimo e il motivo per cui, oggi più che mai, la qualità dell'informazione televisiva italiana ha raggiunto il livello più infimo della propria storia: «Il Tg1 di Minzolini - scrive De Lucia - è una forma di degenerazione ulteriore del regime informativo Dc-Pci che oppresse la prima repubblica con la lottizzazione partitocratica della Rai-tv; Tg1 alla Dc, Tg2 al Psi, Tg3al Pci. Siccome a tutto c'è un peggio, la cosiddetta seconda repubblica è passata dalla lottizzazione tripartitica a una specie di monoscopio informativo del partito berlusconiano: monopolio della tv privata e egemonia nella Rai. Dei sette telegiornali nazionali, tre Rai, tre Mediaset e uno La7, cinque sono di strettissima osservanza berlusconiana, a partire dai più importanti. E se nella prima repubblica i responsabili dei telegiornali avevano in tasca la tessera partitica, nella seconda spesso i direttori sono addirittura dipendenti oppure stipendiati come collaboratori del capo partito».
È così che una carriera all'ombra del reuccio di turno raggiunge il proprio apice grazie all'attitudine del romanissimo Augusto a elogiare il potere, a blandirlo e a raccontarlo con parole docili e con lessico benevolo. Una pratica consolidata tanto da meritarsi un termine di nuovo conio, il minzolinismo. Spiega De Lucia: «Si tratta di uno stile di giornalismo politico pieno di voci anonime, pettegolezzi, faziosità, censure, orecchiamenti, melensaggini, bufale, illazioni, avvertimenti e ruffianerie. Invece di raccontare di un debito pubblico fattosi colossale durante gli anni Ottanta del craxismo, invece di denunciare le ruberie di Tangentopoli, invece di descrivere le malefatte della partitocrazia, invece di spiegare le oscurità del potere andreottiano che sopravvive a se stesso, l'Augusto cronista si occupa della propensione televisiva di Giulio Andreotti». Dedicandogli, come ricorda il tesoriere dei Radicali, lunghi pezzi corredati di numeri per descrivere il tempo delle apparizioni catodiche del Divo e di complimenti per affermare la qualità elogiativa della propria scrittura. C'è, però, qualcosa di più grave, di maggiormente torbido e preoccupante nel minzolinismo: si tratta, infatti, di una prassi che nel tempo ha superato le gesta del proprio mentore per diventare abitudine, diffusa in un certo giornalismo, a screditare gli avversari attraverso la costruzione artificiosa di accuse. Spesso palesemente infondate, oggetto di pubbliche smentite, come quelle che hanno puntellato la carriera dell'Augusto redattore. Basta ricordarne alcune, così, solo per comprendere dove affondano le radici della ignobile quanto praticata macchina del fango.
Nelle vesti, per esempio, di socialista dell'ultima ora, il cronista da marciapiede Minzolini, inviato per raccontare i contorcimenti del partito di cui ha per un certo tempo professato fedele militanza, attribuisce a De Mchelis una brutta frase. «Ottaviano Del Turco - avrebbe detto - era considerato lo scemo del villaggio». Puntuale arriva la smentita: «Esprimo il mio rammarico - spiega il politico veneziano - per ll contenuto della quasi diretta intervista che Augusto Minzolini ha ritenuto di trarre da una conversazione estemporanea. In essa sono tra l'altro contenute delle osservazioni riguardanti Ottaviano Del Turco che suonano obiettivamente ingiuriose e non corrispondenti né la mio reale pensiero, né alla mia amicizia e stima per lui». Più ironico, e in grado di descrivere le abitudini di Minzolini è invece il commento di Walter Veltroni quando nel 1990 il giornalista «si impegna - scrive De Lucia - a descrivere in termini caricaturali la scelta del capogruppo alla camera del Pci: racconta che il candidato Veltroni della presidenza dei deputati comunisti non ne vuole proprio sapere e gli attribuisce la dichiarazione: se qualcuno me lo chiede (di fare il capogruppo) lo mando a quel paese». Veltroni, il giorno dopo, smentisce tutto: <M dispiace di dover smentire nettamente una affermazione che Augusto Minzolini mi attribuisce. Non ho mai detto che avrei mandato a quel paese chi mi avesse proposto un incarico di alta responsabilità e prestigioso come quello di presidente del gruppo dei deputati comunisti. Non è nel mio stile e non ho mai espresso quel concetto sprezzante e arrogante che mi si vuole, non so perché, attribuire. Ho invece affettuosa mente e scherzosamente mandato a quel paese un bravo e simpatico giornalista che stava interrogando, in una hit-parade, i deputati a proposito di una mia ipotetica candidatura» Ecco, insomma, il senso dei classici orecchiamenti da minzolinismo spinto, a volte quasi innocenti, come le marachelle di un bambino alle prime armi, altre, invece, più oscure, miranti al vero discredito di un avversario. Come è accaduto, tanto per citare uno degli episodi più noti, nei confronti di Lu- ciano Violante, il quale fu costretto alle dimissioni da presidente della commissione antimafia, nel 1994, dopo la pubblicazione su La Stampa di un articolo di Minzolini, intitolato, con tono inquietante: I segreti di Violante. Quello che so su di Dell'Utri. Il pezzo attribuisce al politico, all'epoca, Pds la dichiarazione secondo cui Alberto Dell'Utri, fratello del più noto Marcello, sarebbe stato coinvolto in una inchiesta insieme al boss Santapaola. Nonostante la puntuale smentita il clamore suscitato fu così ampio da incidere davvero sul percorso politico di Violante. Peccato, però, che un paio di anni dopo, forse colto da improvviso pentimento, come sulla via di Damasco, e a dimostrazione che tutti hanno un'anima, persino Minzolini, l'Augusto rivelò che l'intervista non era mai avvenuta. «Era frutto - spiegò - di impressioni soggettive determinate da un malinteso all'interno di una conversazione su un altro soggetto».
L'irrituale tecnica del buon Augusto, così tipica da garantirgli un posto ai vertici del giornalismo italiano, ha raggiunto il suo apice con il Tg1. Perché se prima nelle alterne vicende del cronista da marciapiede ci sono stati errori e una certa vocazione alla lusinga, è con il posto di direttorissimo che l'originalità del giornalista esplode tanto da fargli meritare il simpatico nomignolo di Minzulpop. Minzolini nei propri editoriali non dà né tanto meno commenta le notizie, offre al pubblico la propria visione del mondo in grado di ricalcare alla perfezione il punto di vista di Silvio. Chi non ricorda, per esempio, la scaltra gestione del caso D'Addario, liquidato come una polemicuccia basata sul gossip? Non c'è stata nessuna scusa da parte del Minzo, nemmeno ora che le intercettazioni relative al mentore della bionda escort, Tarantini, rivelano intrecci ben più preoccupanti di quelli sperimentati nel corpo a corpo sul lettone di Putin. Oppure resta negli annali la svista lessicale per cui il Tgl lancia il notizione della assoluzione di Mills. Peccato si trattasse di prescrizione, cosa ben diversa, e un direttore, responsabile anche dei titoli dei servizi trasmessi, dovrebbe intuirlo. La marachella più recente, però, riguarda l'editoriale durante il quale Minzolini si prodiga in un frontale attacco al collega Pierluigi Battista, reo di aver indicato la necessità di una cambiamento di leadership nel centro destra. Minzulpop ha sentito la pronta esigenza di imbracciar l'armi: «Sono anni - ha inveito - che la stampa chiede a Berlusconi di farsi da parte [...] eppure il governo non cade. [...] L'unica ragione per disfarsi di questo governo sarebbero il diktat della magistratura, che non lo vuole, e il giudizio della grande stampa, a cui non è mai piaciuto.
Per alcuni queste sono considerazioni ragionevoli ma a mio avviso per nulla convincenti e hanno ben poco a che fare con le regole della democrazia». Garimberti, dopo il richiamo di Zavoli, presidente della commissione di vigilanza Rai, stavolta, ha persino consigliato a Minzulpop di tacere, qualche volta. Non ci riuscirà, per amore del premier di cui tenta di imitare anche le pratiche meno lodevoli. Il direttorissimo, infatti, non è così ligio alle regole e confonde il pubblico con il privato, come dimostra l'uso disinvolto che ha fatto della carta di credito aziendale. Quisquilie. Sono altre le ragioni per cui Augusto Minzolini merita la poltrona di direttore del Tg1. Le ha spiegate Ellekappa: «Minzolini è un giornalista autonomo e indipendente. Non
si lascia assolutamente condizionare dalle notizie».
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