Michels e la legge ferrea della democrazia

Quale è stata l'anima del Novecento? Si è caratterizzato come «l'età degli estremi» (Eric J. Hobsbawm) o è stata «l'età della violenza» (Noel Ferguson)? Ha assunto la fisionomia del secolo lungo del ciclo capitalistico a egemonia americana (Giovanni Arrighi), in altri termini la fase nella quale i processi unificanti avviatisi nel XIX secolo, il tempo della «nascita del mondo moderno» (Christopher A. Bayly), si sono compiuti fino a sfociare nella globalizzazione? Sono solo alcune delle interpretazioni storiografiche che tentano di comprendere e di dare senso al secolo da poco trascorso. L'esito attuale appare incerto e molto sofferente, ma nel contempo sembra contenere un'accresciuta domanda mondiale di democrazia, che pure a partire dagli anni Settanta del secolo scorso pareva avviata a una profonda crisi, impossibilitata a rispondere al cumulo di richieste che le si ponevano. Quale che sia la definizione che si predilige, queste interpretazioni contengono tutte uno degli elementi fondamentali della modernità novecentesca: l'emergere del protagonismo delle masse e il continuo perfezionarsi dei mezzi atti a realizzarlo.
Lo strumento principe - il partito politico - era stato l'oggetto dell'analisi di Robert Michels, che cento anni fa pubblicava La sociologia del partito politico nella democrazia moderna. Allo studioso di Colonia è dedicato il convegno internazionale che si apre oggi a Torino alla Fondazione Luigi Einaudi, che ne custodisce l'archivio. Francesco Tuccari, che del convegno è l'ideatore, ritiene che il senso complessivo della riflessione scientifica di Michels sia stato oscurato dall'immediato successo internazionale della sua opera e dalla sua stabile acquisizione da parte della scienza politica. Il convegno aspira a una riflessione a più largo raggio sulla biografia e sul percorso scientifico di Michels, anche se ha al centro la Sociologia del partito politico, della quale si vogliono cogliere le radici teoriche e culturali nel tempo della sua elaborazione; la fortuna nelle scienze sociali, l'attualità o inattualità.
La Sociologia del partito politico apparve nel 1911. Il sottotitolo recitava Studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici. La riflessione si fondava sui partiti socialisti europei, specie sulla socialdemocrazia tedesca e sul Psi. Era però estensibile alla forma partito tout court, ai nascenti partiti di massa. Il socialista Michels, già militante della Spd prima e del Psi poi, si trasferì in Italia ove entrò in contatto con l'elitista Gaetano Mosca e con il liberale Luigi Einaudi del quale divenne, nei primi anni Trenta, consuocero. Aderì quindi al fascismo e insegnò a lungo all'Università di Perugia.
Il suo libro più celebre si inseriva pertanto in una cornice culturale - dagli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca del 1896 a La democrazia e l'organizzazione dei partiti politici di Moseij Ostrogorskij del 1903 - che nei primi processi ai democratizzazione scorgeva innanzitutto la persistenza dei caratteri oligarchici delle società tradizionali. I partiti socialisti erano allora, nei decenni precedenti il loro ingresso nell'area della legittimità, sostanzialmente forze di «integrazione negativa», secondo la definizione di Giinther Roth per la Spd in epoca guglielmina. Nel periodo precedente la Grande guerra, infatti, Spd e Psi consolidarono il radicamento nelle società in cui operavano, pur nell'esclusione dal governo dei rispettivi paesi. Dopo la Grande guerra la Spd fu uno dei pilastri della gracile ed effimera Repubblica di Weimar; il Psi, primo partito nelle elezioni del novembre1919, era destinato a soccombere di fronte alla dittatura fascista, il cui duce aveva sperimentato la politica di massa nell'ala massimalista del Psi, divenendo direttore dell'Avanti!.
Il problema fondamentale analizzato da Michels era il nesso tra partiti di massa e democrazia: le logiche insite nei primi disponibilità di risorse ideologiche, economiche, di status sociale da parte della struttura burocratica, sufficienti a garantire il trionfo della «ferrea logica delle oligarchie» - oscuravano fortemente le potenzialità della seconda. Con la Grande guerra, l'emergere di partiti di massa totalitari giunti al potere e fattisi Stato pareva dare piena ragione al sociologo. E, tuttavia, in Europa occidentale, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, si ripropose prepotentemente la questione della democrazia e dei suoi strumenti. Nei paesi che avevano attraversato le dittature di destra i sistemi politici si fondarono su un modello organizzativo che vedeva trionfare il partito di massa con molti dei caratteri individuati da Michels. In questo senso egli, all'inizio del Novecento, quando cioè «il potere dell'ancien régime» era, secondo l'analisi di Arno J. Mayer, per molti versi ancora attivo, coglieva alcuni degli elementi costitutivi dei partiti di massa, non solo socialisti, che avrebbero avuto un ruolo di guida della «grande trasformazione» che investì nel secondo dopoguerra l'insieme dell'Europa occidentale.
L'evoluzione dei partiti di massa fu strettamente intrecciata ai mutamenti che sfociarono in quella che Arthur Marwick ha definito la «rivoluzione culturale» realizzatasi tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta. Il suo senso non va ricercato negli effimeri movimenti politici che produsse, pallide ombre dei partiti di massa, ma nella forza della democrazia contenuta nell'emergere della piena soggettività, di minoranze fino allora escluse e nella compiuta legittimazione del pluralismo sociale e culturale. Laddove quel movimento fu intensamente recepito ha generato nuove formazione politiche, come in Germania, capaci di innovare il sistema dei partiti.
Nel nostro paese non fu così. I partiti di massa nell'accezione michelsiana furono le forze di riferimento, dai più antichi - Psi e Pri - ai più giovani - Dc e Pci, quest'ultimo per Bruno Bongiovanni versione italiana paradossalmente più aderente del Psi alla natura della socialdemocrazia. Il problema degli strumenti della democrazia era stato posto nel travaglio che dalla guerra e dal crollo del fascismo era sfociato con la Resistenza nella Repubblica. Pietro Scoppola la definì fondata sui partiti. Di massa, appunto, sebbene dopo l'effimero Partito d'azione si susseguissero tentativi evolutivi, dal Partito radicale del 1955 al Pri di Ugo La Malfa, da Benigno Zaccagnini nella Dc fino all'ancora incompreso progetto di riforma del Pci di Enrico Berlinguer. Non se ne cavò, però, nulla. I partiti di massa deperirono: passarono, compreso il Psi che pure ne colse la crisi, a miglior vita. Anche quella loro disfatta finale diceva del completamento di una stagione i cui caratteri Michels aveva, nella fase aurorale, descritto.
Nel caso italiano il vuoto è stato coperto temporaneamente dal partito personale, postosi in continuità con gli anni terminali del partito di massa. Ha sostituito l'organizzazione con una potente carica seduttiva, una sorta di bunga bunga collettivo. La questione democratica, irrisolta dal partito di massa, si è riproposta. In questo senso le primarie costituiscono la ricerca di un senso sintonico con la natura orizzontale delle società postindustriali, insofferenti ai gruppi dirigenti autoproclamatisi tali.
Le oligarchie si sono derubricate a caste, presenti in tutti i gangli decisivi, non solo politici. Contro di esse monta una reazione mondiale, che esprime le ragioni della democrazia sull'oligarchia.
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