Merkel cede alle banche tedesche ma impone un conto salato ad Atene

Con estrema fatica, i governi dell’Eurogruppo hanno varato ieri una rete di salvataggio da trenta miliardi di euro per la Grecia: un dispositivo che avrebbero potuto, e forse dovuto, mettere in campo già mesi fa, ai primi segnali di un attacco speculativo dei mercati contro Atene.
La decisione presa ieri, con una definizione precisa dei fondi disponibili e dell’interesse a cui verranno concessi, dovrebbe tagliare le unghie alla speculazione e penalizzare quegli operatori che avevano scommesso a termine su un continuo rialzo dello «spread» tra i titoli di stato greci e quelli tedeschi. Questo dovrebbe consentire al governo greco di continuare a finanziarsi sui mercati senza neppure fare ricorso alla linea di credito che è stata aperta in suo favore da parte degli altri Paesi dell’eurozona. Tale è almeno l’intenzione chiaramente espressa dal ministro greco delle finanze, George Papaconstantinou: «Il nostro obiettivo è di continuare a finanziarci tranquillamente sui mercati a condizioni migliori di quelle attuali».
E comunque, come ha spiegato ieri il presidente dell’eurogruppo Jean Claude Juncker, il denaro che i Paesi europei potrebbero essere chiamati a prestare alla Grecia non sarà certo dato a fondo perduto e non peserà negativamente sui programmi di risanamento dei loro bilanci. Si potrebbe anzi dire il contrario: prestando ad un interesse del 5 per cento denaro che i governi dell’ Eurogruppo possono raccogliere ad un tasso comunque inferiore grazie all’emissione dei loro titoli di stato, la solidarietà europea si potrebbe trasformare per loro in un vero e proprio affare. C’è allora da chiedersi come mai questo passo non sia stato deciso prima, ed abbia richiesto una incubazione così lunga e tormentata, con almeno due vertici di capi di governo, innumerevoli discussioni tra i ministri delle Finanze e una consultazione quasi ininterrotta tra i tecnici dei rispettivi ministeri.
Ancora nel week-end scorso, i Sedici si sono avvitati in una discussione accesissima su quale dovesse essere il tasso da applicare alla linea di credito in favore di Atene. Tedeschi, austriaci e olandesi insistevano su condizioni ancora più dure di quelle, già molto pesanti, che vengono di regola applicate dal Fondo monetario internazionale.
Perché tanto accanimento? Le ragioni sono sia di ordine culturale sia di ordine politico. All’inizio la preoccupazione di cui la cancelliera Angela Merkel e il Finanzminister Schauble si sono fatti portavoce erano abbastanza ragionevoli. Si voleva a tutti costi evitare che un salvataggio troppo «facile» della Grecia costituisse un esempio diseducativo nei confronti di altri Paesi che hanno i conti in disordine e innescasse un «contagio» generalizzato incoraggiando l’indisciplina finanziaria.
Ma, dopo che la Grecia aveva varato un piano doloroso di risanamento e lo aveva rafforzato con misure addizionali, l’accanimento punitivo con cui Berlino ha continuato a rifiutare la rete di salvataggio non aveva più valide ragioni economiche. Alla durezza del governo tedesco ha indubbiamente contribuito una certa rigidità luterana, desiderosa di punire il fatto che Atene avesse apertamente truccato i conti nascondendo lo stato miserevole delle proprie finanze.
Ma molto di più hanno contribuito ragioni di politica interna: la paura che la Corte costituzionale federale bocciasse il salvataggio in quanto contrario al Trattato di Maastricht e soprattutto il timore di non riuscire a convincere una opinione pubblica ostile a qualsiasi solidarietà proprio mentre si avvicina una tornata di elezioni cruciale per il futuro politico della coalizione di centro destra al governo a Berlino. Per alleviare questi timori della Merkel, i partner dell’eurozona hanno dovuto accettare di coinvolgere l’Fmi: ipotesi
che trovava contrari sia la Commissione, sia la Banca Centrale sia il governo francese. Inoltre hanno dovuto fissare termini e condizioni che rendessero chiaro come l’interesse non rappresentava certo un trattamento di favore.
Il governo olandese, da sempre in competizione con quello tedesco a chi si mostra più rigoroso in materia di finanze pubbliche, si è naturalmente schierato con Berlino. Ed anche gli austriaci, confrontati ad un mood del proprio elettorato non diverso da quello tedesco, ha sposato la linea dell’austerità. Ma alla fine, paradossalmente, sono state proprio motivazioni di ordine economico a costringere il governo tedesco a venire a più miti consigli superando le avversioni di ordine politico e culturale. Dopo aver resistito alle sollecitazioni del presidente della Commissione Barroso, del presidente francese Sarkozy e della stessa Bce, la Merkel infatti ha dovuto arrendersi alle pressioni fortissime che le sono venute dalle stesse banche
tedesche, che paradossalmente sono tra le più esposte nei confronti della Grecia. Un «default» di Atene si sarebbe trasformato in un colpo durissimo perla stessa economia tedesca. E di fronte a questa prospettiva, la Cancelliera di ferro ha finalmente dovuto mettere fine alla propria crociata.
La decisione presa ieri, con una definizione precisa dei fondi disponibili e dell’interesse a cui verranno concessi, dovrebbe tagliare le unghie alla speculazione e penalizzare quegli operatori che avevano scommesso a termine su un continuo rialzo dello «spread» tra i titoli di stato greci e quelli tedeschi. Questo dovrebbe consentire al governo greco di continuare a finanziarsi sui mercati senza neppure fare ricorso alla linea di credito che è stata aperta in suo favore da parte degli altri Paesi dell’eurozona. Tale è almeno l’intenzione chiaramente espressa dal ministro greco delle finanze, George Papaconstantinou: «Il nostro obiettivo è di continuare a finanziarci tranquillamente sui mercati a condizioni migliori di quelle attuali».
E comunque, come ha spiegato ieri il presidente dell’eurogruppo Jean Claude Juncker, il denaro che i Paesi europei potrebbero essere chiamati a prestare alla Grecia non sarà certo dato a fondo perduto e non peserà negativamente sui programmi di risanamento dei loro bilanci. Si potrebbe anzi dire il contrario: prestando ad un interesse del 5 per cento denaro che i governi dell’ Eurogruppo possono raccogliere ad un tasso comunque inferiore grazie all’emissione dei loro titoli di stato, la solidarietà europea si potrebbe trasformare per loro in un vero e proprio affare. C’è allora da chiedersi come mai questo passo non sia stato deciso prima, ed abbia richiesto una incubazione così lunga e tormentata, con almeno due vertici di capi di governo, innumerevoli discussioni tra i ministri delle Finanze e una consultazione quasi ininterrotta tra i tecnici dei rispettivi ministeri.
Ancora nel week-end scorso, i Sedici si sono avvitati in una discussione accesissima su quale dovesse essere il tasso da applicare alla linea di credito in favore di Atene. Tedeschi, austriaci e olandesi insistevano su condizioni ancora più dure di quelle, già molto pesanti, che vengono di regola applicate dal Fondo monetario internazionale.
Perché tanto accanimento? Le ragioni sono sia di ordine culturale sia di ordine politico. All’inizio la preoccupazione di cui la cancelliera Angela Merkel e il Finanzminister Schauble si sono fatti portavoce erano abbastanza ragionevoli. Si voleva a tutti costi evitare che un salvataggio troppo «facile» della Grecia costituisse un esempio diseducativo nei confronti di altri Paesi che hanno i conti in disordine e innescasse un «contagio» generalizzato incoraggiando l’indisciplina finanziaria.
Ma, dopo che la Grecia aveva varato un piano doloroso di risanamento e lo aveva rafforzato con misure addizionali, l’accanimento punitivo con cui Berlino ha continuato a rifiutare la rete di salvataggio non aveva più valide ragioni economiche. Alla durezza del governo tedesco ha indubbiamente contribuito una certa rigidità luterana, desiderosa di punire il fatto che Atene avesse apertamente truccato i conti nascondendo lo stato miserevole delle proprie finanze.
Ma molto di più hanno contribuito ragioni di politica interna: la paura che la Corte costituzionale federale bocciasse il salvataggio in quanto contrario al Trattato di Maastricht e soprattutto il timore di non riuscire a convincere una opinione pubblica ostile a qualsiasi solidarietà proprio mentre si avvicina una tornata di elezioni cruciale per il futuro politico della coalizione di centro destra al governo a Berlino. Per alleviare questi timori della Merkel, i partner dell’eurozona hanno dovuto accettare di coinvolgere l’Fmi: ipotesi
che trovava contrari sia la Commissione, sia la Banca Centrale sia il governo francese. Inoltre hanno dovuto fissare termini e condizioni che rendessero chiaro come l’interesse non rappresentava certo un trattamento di favore.
Il governo olandese, da sempre in competizione con quello tedesco a chi si mostra più rigoroso in materia di finanze pubbliche, si è naturalmente schierato con Berlino. Ed anche gli austriaci, confrontati ad un mood del proprio elettorato non diverso da quello tedesco, ha sposato la linea dell’austerità. Ma alla fine, paradossalmente, sono state proprio motivazioni di ordine economico a costringere il governo tedesco a venire a più miti consigli superando le avversioni di ordine politico e culturale. Dopo aver resistito alle sollecitazioni del presidente della Commissione Barroso, del presidente francese Sarkozy e della stessa Bce, la Merkel infatti ha dovuto arrendersi alle pressioni fortissime che le sono venute dalle stesse banche
tedesche, che paradossalmente sono tra le più esposte nei confronti della Grecia. Un «default» di Atene si sarebbe trasformato in un colpo durissimo perla stessa economia tedesca. E di fronte a questa prospettiva, la Cancelliera di ferro ha finalmente dovuto mettere fine alla propria crociata.
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