Marco Pannella, la nonviolenza come sinonimo di liberalismo

Dalla Rassegna stampa

“Io non lotto per la mia legalità, ma perché sia rispettata la legge che si sono dati coloro che per primi la violano". Basta questa frase a riassumere emblematicamente la lunghissima vicenda politica di Marco Pannella. La si può leggere nell’intensa, partecipata, biografia dedicata all’esponente radicale da Valter Vecellio edita da Rubbettino con un titolo quanto mai appropriato, Marco Pannella, biografia di un irregolare (euro18,00). Non ci offre soltanto il ritratto a tutto tondo di un uomo la cui vita s’identifica con la passione per la verità e la tenace lotta nonviolenta per l’affermazione, sempre e ovunque, di una speranza liberale, ma anche e soprattutto un ampio e approfondito spaccato di storia, anzi di storie. Sì, perché ripercorrendo l’azione politica di Pannella storie diverse e parallele finiscono per intrecciarsi ed essere messe a fuoco, storie riconducibili alla contrapposizione tra liberalismo, da un lato, e concezione totalitaria della società, dall’altro.
 
 Non è un caso se i più ostili a Pannella e a ciò che in questi lunghi anni, con la sua parola e il suo corpo, ha saputo esprimere e conquistare (per tutti, senza distinzione alcuna) siano sempre stati comunisti e, in genere, massimalisti. Ed ecco, quindi, Pannella ricordare a Togliatti nel 1959, in una lettera aperta, che "poche lotte si sono combattute più aspre e continue di quelle che hanno opposto democratici e comunisti", denunciare nel "1966 che "bisogna sfatare il mito di un’opposizione totale del Pci al sistema, per analizzare invece anche la storia di compromissioni", correre nel 1968, con un manipolo di radicali (tra cui Marcello Baraghini, futuro editore di Stampa Alternativa), nelle piazze dei paesi dell’Est per essere prima arrestato e poi espulso, o, ancora, rinfacciare nel 1979 in pieno congresso del Pci l’episodio di via Rasella.
 
"Da una vita", dice, "inseguo i comunisti per assorbirli, megalomane come sono, nella rivoluzione liberale". Per tutta risposta gli sono giunte invettive, contumelie, incomprensioni fino al veto alla sua presenza al parlamento italiano e in quello europeo. Nella scorsa legislatura, poi, gli fu negato un seggio in Senato che gli sarebbe, invece, spettato. Ostracizzato in patria, altamente considerato all’estero per l’instancabile impegno transnazionale a favore dei diritti di popoli perseguitati, contro la pena di morte e per trovare una soluzione allo sterminio per fame nel mondo, Pannella ha destato l’interesse e ricevuto la stima di uomini di cultura, di scienza, di esponenti religiosi come il Dalai Lama. Ma chi è, in realtà, quest’uomo che ad ottant’anni ricorre allo sciopero della fame e della sete per scongiurare che il cappio del boia si stringa sul collo di un Caino come Tarek Aziz e richiamare l’attenzione sull’inferno della situazione carceraria in Italia? È  un copernicano in un mondo di tolemaici, come sosteneva Elio Vittoriani, o un Proteo multiforme che ha tentato di costituire una alternativa religiosa laica alla cultura cattolica del popolo italiano, secondo la definizione di Gianni Baget Bozzo? Oppure, come ha affermato Enzo Bianchi, priore di Bose, è un esigente che pone con lealtà domande che interpellano il dettato evangelico?
 
Probabilmente è tutto questo insieme ma anche di più e di altro. E il libro di Valter Vecellio, senza cadere nell’apologetica, ce lo spiega molto bene. Pannella è il politico che, a dispetto della corruzione di ogni tipo di potere, rivendica la dignità e la nobiltà della tensione civile, rimarcando che è giunto il tempo di "edificare la felicità in concrete azioni di fiducia attraverso il dialogo, la parola"; è un innamorato del diritto o, se si vuole, un persuaso, per ricorrere a un termine di Michelstaedter, che si è sempre, in ogni modo, sforzato di indicare una via d’uscita "dal disastro che incombe e che viviamo", un lungimirante che al machiavellismo d’accatto ha contrapposto la ferma convinzione che i mezzi prefigurano e qualificano il fine, uno che, come scrisse Piero Calabrese, "ci ha insegnato ad essere liberi, a diventare migliori, a farci testimoni del nostro tempo".
 
Forse è per questo che, in uno scenario degradato e degradante come il nostro, si erge in luminosa solitudine.

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